Volevo nascondermi

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Tra naturalismo ed espressionismo, la storia di un artista matto e "foresto"

di francesca meneghetti


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giovedì 27 agosto 2020

"Volevo nascondermi" è un film che merita di essere visto, ma non per svago: esso richiede allo spettatore una partecipazione intelligente ed emotiva alla triste storia di Antonio Ligabue, così come l'ha raccontata Giorgio Diritti, regista e co-sceneggiatore. Non è la prima volta che il nostro Van Gogh padano attira l'interesse del cinema. Se escludiamo i primi documentari degli anni '60, le opere più importanti sono "Ligabue" del 1977, interpretato da Flavio Bucci, regia di Salvadore Nocita e il recente (2015) docufilm "Antonio Ligabue, L'Uomo", regista Ezio Aldoni.
Ritornare sullo stesso tema è dunque una sfida che punta non tanto ai contenuti, in buona parte già noti, quanto alla forma, per dirla in maniera crociana: cioè si dà valore al modo di narrare.
Quattro sono i punti di forza di questo grande film.
Anzitutto l'interpretazione di Elio Germano, che è stata premiata alla Berlinale, e che comporta una totale metamorfosi dell'attore che ne coinvolge il volto (sapientemente truccato), le espressioni degli occhi, la voce, la postura animalesca, i gesti, spesso enfatizzati all'estremo, come si addice a "un matto" (Bucci, per quanto bravo, mantiene una postura dritta, e si affida soprattutto allo guardo, allucinato).
In secondo luogo la focalizzazione tematica, sulla scia degli altri film di Giorgio Diritti (formatosi come documentarista), in particolare: "Il vento fa il suo giro", "L'uomo che verrà". In tutti questi lavori si delineano, con precisione antropologica, dei microcosmi chiusi, ricchi di personaggi, di codici, di regole, alle prese con un corpo estraneo, che può essere rifiutato da tutti (come la coppia francese del primo film, giunta nella comunità pastorale di Valle Maira) o come i nazisti nel secondo, oppure può dar luogo a un mix di ostracismi e aperture, come ha scritto Fabio Ferzetti. In questo senso Ligabue è emblema dello Straniero. Ma Giorgio Diritti non gioca all'ideologo: racconta ciò che accade con un distacco documentario che non lascia però indifferente lo spettatore (ci si può indignare o si può piangere, come quando il pittore si inchina davanti alla madre di Renato Marino Mazzacurati, il primo che gli apre le porte a Gualtieri, dopo che Ligabue, espulso dalla Svizzera (dove nasce da genitori italiani che lo danno in affido), si trova a vivere come un animale selvatico lungo il Po.
Il terzo elemento è lo stile della regia. Diritti non compie una narrazione compatta e lineare. Procede per sequenze frammentarie, ricorrendo a flashback specie nella prima parte, e richiedendo la partecipazione attiva dello spettatore, chiamato a incollare, ordinare, completare. Si aggiunga il ricorso alla reticenza, all'allusione, più che all'esplicito dire, efficaci per ricomporre la psicologia complessa e sofferta dell'artista. Il personaggio, a questo riguardo, risulta particolarmente dinamico e si dimostra, con il tempo, reattivo alla compassione e alla stima degli altri, tanto da uscire da quella condizione di bestia ferita dell'infanzia e della giovinezza, e da potersi relazionare, almeno un poco, con le altre persone. Molto meno con il sesso femminile (il che lo porterà a un travestitismo consolatorio: vestendosi da donna, si illuderà di averne una accanto).
Infine, terzo elemento caratterizzante lo stile è la mescolanza del registro documentario-oggettivo con quello espressionistico, tendente al caricaturale, come quando Ligabue imita gli animali per coglierne lo spirito e dipingerli con vivacità.
Questa dialettica naturalismo/rappresentazione della realtà carica di colore, si ritrova nell'ultimo punto di forza del film: la fotografia diretta dal giovane Matteo Cocco (vive all'estero), e premiata con il Globo d'oro. In realtà la variante espressionistica, che ci si aspetterebbe in un pittore naif, ma forse non digiuno della lezione di Van Gogh e dei Fauves, trova spazio soprattutto alla fine, quando i titoli di coda scorrono in sovraimpressione: sullo sfondo la pittura coloratissima di Ligabue. E all'inizio, quando un occhio sospettoso fa capolino da un grande mantello nero, dietro il quale Ligabue voleva nascondersi. Ma per il resto le immagini scorrono all'insegna di un'insolita naturalezza. In controtendenza rispetto al trend di moda (perseguire un'altissima definizione, forte contrasto ed estrema saturazione), Cocco opta per lo sfumato "leonardesco", nei contorni e nelle luci, così che un pulviscolo dorato viene a coprire il paesaggio padano. Altrimenti, per accentuare i momenti oscuri di Ligabue, ricorre alla sottoesposizione, senza correggerla con flash o luci artificiali. Tecnicamente meravigliosa, dunque, la fotografia di Cocco.

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