Anno | 2012 |
Genere | Documentario |
Produzione | Italia |
Durata | 57 minuti |
Regia di | Giada Colagrande |
Attori | Robert Wilson (II), Marina Abramovic, Willem Dafoe, Anohni . |
MYmonetro | 2,75 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento giovedì 6 settembre 2012
L'occhio di una regista dietro le quinte di uno spettacolo irripetibile.
CONSIGLIATO SÌ
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Quattro talenti straordinari riuniti sullo spazio di un palco e poi dentro un film, per allestire un funerale. La non morta è Marina Abramovic, regina del controllo di sé spinto al limite estremo e curiosa per questo di controllare quello che non le sarà dato gestire, quando accadrà. Il maestro di cerimonie è Bob Wilson, eminenza teatrale, al quale la performer si affida non senza sofferenza, d'altronde è proprio questo il patto. Canta il lamento funebre, ma anche le gesta avventurose della sua vita, Antony Hegarty, voce ineffabile, senza uguali possibili, speciale come l'occasione. Narra Willem Dafoe, attore dell'impegno, del darsi totalmente, della trasformazione infinita.
Giada Colagrande sfrutta il suo essere insider in questo cenacolo creativo tra i più interessanti e produttivi della scena contemporanea per fare allo stesso tempo molto e poco, in fondo il giusto. Da un lato, infatti, si limita ad aprire allo spettatore cinematografico il varco all'interno di un universo contiguo e lontanissimo com'è quello del teatro, e di questo genere di teatro in particolare, realizzando con umiltà un dietro le quinte che serve a dovere lo spettacolo, senza volerlo a tutti i costi riplasmare o adombrare. Dall'altro lato, invece, allestisce silenziosamente e quasi impercettibilmente un'altra scena, giù dal palco, appunto, dentro luoghi fisici e non, più cinematografici per definizione: il camerino, ma anche il piano ravvicinato. E in questa scena parallela, coerentemente con quanto avviene sul fronte di Bob Wilson, Marina non è protagonista attivamente (nel senso che non dice di sé più di quanto non abbia detto altrove) ma il suo protagonismo (ri)nasce dai racconti degli altri, protagonisti invece attivi a tutto tondo, perché impegnati nella ricerca di come accostarsi a lei.
Il pregio di questo documentario è in fondo proprio nell'umiltà con cui una regista si è accostata all'opera di un altro regista sulla massima regista di se stessa. Non ci sono quasi idee di regia, nell'accezione più vistosa del termine, ma il dosaggio è in equilibrio, talvolta freddino come le luci dello spettacolo, talvolta invece piacevolmente riscaldato dal legame privato con Dafoe, che esce -a ragione- premiato un po' più degli altri, nonostante la regista stia ben attenta a non fare preferenze. In mezzo a tanti ego non avrebbe avuto senso adottare la prima persona.