Blood Brothers

Sembra di essere tornati a Hollywood o a Cinecittà, persi nelle scenografie fumose degli anni '30, quando il cinema americano era tutto pistole e proibizionismo. E invece siamo a Shangai, più o meno nello stesso periodo, seduti al "Paradise, il club notturno più in voga della città, frequentato da aristocratici e malviventi. Fra pettinature a schiaffo e nostalgiche canzonette (almeno per il pubblico del futuro) tre fratelli di "sangue", gli inseparabili Fung, Kang e Hu, tentano la fortuna nella grande città, dopo essersi autoesiliati dalla provincia e dal poco edificante lavoro di pescatori.
I sogni di gloria vengono interrotti da un mondo sotterraneo e criminale, capitanato dal boss Hong (un sedicente produttore cinematografico), perennemente accompagnato dall'attrazione principale del nightclub: l'affascinante e inarrivabile Lulù.
Tradimenti, lotte e pallottole non stentano ad arrivare, la lotta per il potere è aperta. Alexi Tan esordisce alla regia con un film formalmente e stilisticamente impeccabile, un revival nei bassifondi della criminalità organizzata che è insieme omaggio al Martin Scorsese più sfrenato e al De Palma di Carlito's Way.
Recitazione impeccabile e ottimo esordio per l'allievo di John Woo, che ha deciso di presentarsi al pubblico internazionale con un remake - più che altro un omaggio - di Bullet in the Head, dello stimato maestro cinese. Un film che suonerebbe perfetto in un saggio finale alla scuola di cinema, senza sbavature ed eccessivi virtuosismi, solo una buona vecchia pellicola d'altri tempi, con ambientazioni credibili ed evocative. Mafia, potere, ingiustizia e spietatezza, per un finale inevitabilmente tragico. Ma non preoccupatevi, siamo solo al cinema. 