Il sogno americano sa di zucchero
di Natalia Aspesi La Repubblica
Cuore di pietra tra altri cuori di pietra, non una lacrima si è materializzata nel nostro gruppo di cinici brontoloni, mentre si attendeva che il buon protagonista di colore, senza un dollaro in tasca, padre esemplare di un adorabile piccino tutto ricci e nessun capriccio, scendesse sempre più in basso nella crudeltà e indifferenza della grande città, in questo caso San Francisco. Di crudeli colpi del destino nei suoi confronti, pareva di non essere mai sazi, altro che Apocalypto: già molti si fregavano le mani sperando che prima o poi avrebbe perduto il bambino, o si sarebbe rotto una gamba, sarebbe sprofondato nell'abiezione urbana.
Ma cosa provocava tanto malanimo tra gli spettatori più cinici (in lontananza però, si percepiva la nebbiolina umida della commozione) del celebrato La ricerca della felicità, primo film americano diretto dal nostro regista-star Gabriele Muccino (Ultimo bacio, Ricordati di me)? Certamente il fatto che quel bel giovanotto color crema di nocciola, dai bellissimi occhi neri, dalla bocca malandrina con baffetti irresistibili (non Muccino ma Will Smith) sopportava ogni tortura metropolitana per inseguire il suo personale grande sogno americano anni 80: diventare banalmente un broker! Arricchirsi, passando tutto il giorno chiuso in uno stanzone pieno di gente apparentemente pazza, che agita carte, urla al telefono, schizza di qua e di là, e con lo strizzacervelli che lo aspetta per strapparlo al suicidio.
Il cinema americano degli anni 90 ci aveva abituato a vedere broker con la faccia di Michael Douglas tapini e disperati, il cui sogno americano era abbandonare la bolgia finanziaria per rifugiarsi su un'isola deserta a contemplare i granchi, vicino a una lunga signorina servizievole. Ma adesso siamo nel 2007, e il sogno americano, oltre a quello di non morire in Iraq o in un temuto attentato terronistico, è tornato a essere reaganiano: se proprio non si può diventate ricchissimi, che almeno si riesca ad arrivare alla fine del mese. Deve essere per questo, oltre ovviamente per il dinamismo dell'azione e la furbizia con cui il nostro regista sa compiacere il pubblico, che negli Stati Uniti La ricerca della felicità sta avendo incassi record, già nei primi giorni 104.510.417 dollari; il protagonista Will Smith è tra i candidati a tutti i premi di critica più importanti, e il piccolo Jaden Christopher Syre Smiths, suo figlio settenne anche nella vita, è candidato come "supporting actor". No nomination per Muccino, almeno per ora. Tanto per dire come gli americani sono occhiuti quando si tratta di bambini: il film è classificato PG-13, cioè vietato ai minori di 13 anni non accompagnati, perché viene pronunciata la parola "fuck" (fottiti, da noi usatissima in tv) e per l'intensità psicologica».
Il film, che è anche un libro appena pubblicato in Italia da Fandango, racconta una parte della vita vera di Chris Gardner, oggi a capo di una fortunata compagnia di intermediazione finanziaria, miliardario ed eletto "Padre dell'anno". Arrivato dal ghetto nero di Milwaukee, tanti fratelli e padre assente, in una San Francisco affollata da poveri senza speranza, decide che un giorno anche lui avrà una rossa Ferrari. Il film salta i preliminari, compresi i paradisi sessuali con la compagna, e inizia subito con la predica molto americana: «Non permettere a nessuno di dirti che quello che desideri è irraggiungibile, se hai un sogno, devi difenderlo, se vuoi qualcosa, vale prenditela. Punto».
Piantato dalla moglie esasperata dalla miseria, Will Smith non riesce a vendere inutili apparecchi medici e sognando di fare il broker, ottiene di poter frequentare un corso di sei mesi non pagato, per imparare il mestiere. Siamo in America, la competizione è tutto, alla fine, dei venti disgraziati aspiranti, uno solo otterrà quel posto horror verso la ricchezza.
Cacciato di casa per non aver pagato l'affitto, diventato un homeless, in fila la sera per il dormitorio pubblico se no lui e il piccino a dormire nei cessi delle metropolitane; come per la Cosetta dei Miserabili, una disgrazia tira l'altra, gli rubano la merce, perde una scarpa, lo arrestano, arriva al colloquio fatale senza camicia, errore imperdonabile. Il piccino non sbraita, il papà trasforma la miseria in gioco: il lavoro un disastro, il corso invece bene, il ragazzo nero degli anni 80 è sempre sorridente, sicuro di sé, ossequioso, spiritoso, camicia perfetta, malgrado i disagi notturni. I capi bianchi tutti gentili e indifferenti, non vogliono né vedere né sapere. Smith corre in continuazione, è bravo, il film è solo lui: anche il cinico che dopo due ore di disastri, ma certo del lieto fine, ormai si è spappolato in una poltrona di zucchero filato, si lascia alla fine intenerire, quando Will Smith sa di avercela fatta, dal suo viso immobile, chiuso a contenere la lunga disperazione, senza più la maschera del finto uomo di successo.
Da La Repubblica, 12 gennaio 2007
di Natalia Aspesi, 12 gennaio 2007