Anno | 2010 |
Genere | Documentario |
Produzione | Francia |
Durata | 58 minuti |
Regia di | Olivier Zabat |
MYmonetro | Valutazione: 3,00 Stelle, sulla base di 1 recensione. |
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Ultimo aggiornamento venerdì 30 luglio 2010
CONSIGLIATO SÌ
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Un uomo coperto di piercing e tatuaggi si fotografa ripetutamente il volto con il proprio cellulare. Nel frattempo, durante le loro ronde notturne, due giovani guardie antincendio sentono degli strani rumori provenire dai sotterranei di un edificio.
"Fading" indica una sparizione graduale, un processo verso l'indistinto. Riguardo al cinema, oltre a segnalare una dissolvenza, connota tutto il potere fantasmatico, illusorio della visione filmica.
Olivier Zabat, artista che nei suoi lavori cerca sempre un punto di congiuntura fra un'arte di concetto e un'idea documentaria, intitola Fading un'opera che di dissolvenze non fa uso, ma che affronta l'idea di apparenza e la dialettica fra visibile e invisibile incrociando due storie nate da un lavoro di ricerca e di improvvisazione con i personaggi-attori. All'inizio, siamo portati a credere che i caratteri presentati, il clochard punk che gioca con la scoperta dei propri tratti somatici e i due guardiani intimoriti da rumori e flebili presenze di luce, agiscano sullo stesso piano e che le due storie costruiscano un unico piano narrativo (in cui i due guardiani sono intimoriti dalla presenza e dalle azioni dell'uomo tatuato). Invece, quando viene meno la logica e la coerenza di un montaggio alternato fra le due sezioni, ci rendiamo conto che i falsi contrappunti di Zabat rivelano due universi paralleli. Una doppia articolazione realizzata in continuità, senza interventi diretti di messa in scena, in cui le riflessioni sull'idea di apparenza dell'uomo tatuato si giustappongono allo scacco delle due guardie, bloccate dal crescente fluire di flusso suggestioni ottiche e sonore.
Fading si pone quindi come una riflessione concettuale sull'idea di inganno e sui meccanismi di tensione, come un tentativo di catturare quelle attrazioni che si originano di fronte alla macchina da presa in modo quasi automatico. È un esercizio di stile sul concetto di apparenza, sia in relazione a se stessi che in merito alle invisibili presenze della realtà.