René Clément è un regista, scrittore, sceneggiatore, è nato il 18 marzo 1913 a Bordeaux (Francia) ed è morto il 17 marzo 1996 all'età di 83 anni a Parigi (Francia).
Le amanti di Monsieur Repois, la tardiva presentazione in Italia de La bataille du rail. (denominata da noi Operazione Apfelkern) e Gervaise invitanò a un breve discorso sui fatti del giovane regista francese René Clément, che ebbe una affermazione clamorosa con Giochi proibiti, film doppiamente cimiteriale perché evoca nello stesso tempo autentici cimiteri e quegli altri, metafisici, che hanno attinenza con «Le vert paradis des amours enfantines».
Che cos’è Operazione Apfelkern? È un film sulla resistenza francese, e più precisamente sulla battaglia, ostinata e sanguinosa, dei ferrovieri patrioti per preservare il materiale e più ancora per impedire ai tedeschi di servirsi a fondo del prezioso ausilio delle ferrovie. Ma diamo uno sguardo di assieme, per vederci chiaro, su tutta l’opera del regista. Clément è, sino ad oggi, responsabile di sette film che differiscono notevolmente l’uno dall’altro: La bataille du rail, Le château de verre, Les maudits, Le mura di Mala paga, Giochi proibiti, Monsieur Ripois, Gervaise. Notiamo subito che differiscono notevolmente l’uno dall’altro: La bataille du rail è di tono epico; Les maudits (vicenda di un sottomarino tedesco che riesce a sfuggire alla stretta dei vincitori. avventuroso: Le château de verre psicologico-elegante; Le mura di Mala paga psicologico-populista; Giochi proibiti drammatico-elegiaco; Monsieur Ripois ironico-allusivo; Gervaise naturalista.
Per tornare al primo film è certo che in Operazione Apfelkern non c’è nulla che faccia presagire i futuri interessi del regista. Egli è ancora un «suffisant», e vulnerabilissimo, polemista manicheo, che divide nettamente, senza sospetti e senza residui, il bene dal male, gli eletti dai reprobi. Non è troppo importante, e non è neppure nuovo, che gli angeli siano i ferrovieri dal volto fuligginoso che discendono direttamente dal patriottico socialismo francese di Prudhon prima che dai testi di Marx, filtrati dagli specialisti dell’École Normale Supérieure. La battaglia è confusa, i tedeschi sono «a priori» fuori giuoco; fucilazioni e massacri ripetono le melense concitazioni vittorughiane.
La variabilità dei temi non manca di stupire nelle opere di Clément, ed è anche un tantino scandalosa. Senza giungere alla giustizia sommaria operata da François Truffaut (vedi «La Parisienne», luglio 1954) che definisce addirittura Clément «imitatore di talenti altrui»), si può essere davvero perplessi davanti ad un autore che passa dall’enfasi de La bataille du rail alla secchezza settecentesca di Monsieur Ripois e alla «crudeltà», tipicamente moderna, di Giochi proibiti. L’equità vuole tuttavia che si tenga conto dei valori obiettivi: la Francia d’oggi, con l’«evasione» dai guai messa in azione giudiziosamente da Mendès-France è ovviamente piuttosto diversa dalla Francia resistenziale» dei poeti proletari Eluard e Aragon.
Proprio qui da noi Rossellini ha fatto qualcosa di simile: è partito dai motivi patriottico-corali di Roma città aperta e di Paisà per giungere alle rive oppresse dal fumoso misticismo di Stromboli e al «santo» tentativo di Ingrid Bergman in Europa 5, che è una versione in termini mondano-figurativi della esperienza «bouleversante» di Simone Weil. Si è giunti, a proposito di Rossellini, ai più crudeli rimproveri; ma nessuno si è sognato di definirlo «imitatore di talenti». Eppure, a differenza di ciò che è avvenuto per Rossellini, Clément è in progresso artistico; non c’è possibilità di confronto tra La bataille du rail e Giochi proibiti.
Anche nella linea melodica, che porta dalle prime alle ultime opere, e tenendo nel debito conto le fonti letterarie, si spiega una personalità che si definisce più compiutamente sul piano dell’intelligenza e dell’espressione. Quel curioso e caro scrittore che fu Louis Hémon (finito per malasorte sotto un treno durante uno dei suoi vagabondaggi nel Canada) aveva definito esattamente le proprie ambizioni sin dal titolo del suo romanzo che suona «Monsieur Ripois et la Némesis».
Dongiovanni povero ma implacabile, Ripois è aiutato nelle sue imprese di seduzione dal destino, senza l’aiuto del quale egli fallirebbe più di un colpo. Sono fragili creature femminili colte in un momento di crisi, e prone alle sollecitazioni del più audace offerente. Nel film la strategia, e la tattica, del dongiovannismo rigoroso discendono dal gran libro di Choderlos de Laclos, generale di artiglieria, e non dalle suggestioni del patetico e ironico Hémon. Nel romanzo i delitti di Ripois sono delitti che il confessore è costretto a perdonare in fretta; perché il cattivo seduttore appare, al limite, come un cieco, e in fondo innocente, strumento della Provvidenza, i cui imperscrutabili disegni, come ognun sa, non sono altro che il segno della presenza divina nella nostra cronaca individuale.
Cambiato completamente registro, abbandonati i temi cimiteriali di Giochi proibiti, il regista francese ha diretto con Le amanti di Monsieur Ripois una squisita commedia cinematografica. ricca di sfumature di ottimo gusto e di situazioni paradossali e bizzarre, ingegnose e profonde. Nella sua sfera di opericciola ironica, di «testa», destinata ad essere gustata soprattutto da un pubblico di intellettuali, Le amanti di Monsieur Ripois è una pellicola godibilissima. Dialoghi, ambienti, recitazione (un Gérard Philipe in gran forma, Valerie Hobson, Joan Greenwood) sono senza difetti. Mirabile la perizia tecnica di Clément che è riuscito a fotografare Philipe per le strade affollate del centro di Londra senza che i passanti sospettassero tra loro la presenza dell’emulo europeo di Marlon Brando.
Quanto a Gervaise, Clément non ha forse riflettuto abbastanza al fatto che ciò che rende ai giorni nostri difficile e laboriosa la «suite» romanzesca di Émile Zola, è proprio quel cupo determinismo che risulta, alla fine, più spietato di quella teoria religiosa del peccato originale e dell’inevitabile espiazione contro la quale proprio i positivisti erano insorti. Con immagini indimenticabili perché hanno il dono di una intuizione piena e felice, Clément ci ha offerto una «tranche de vie» operaia negli ultimi anni del secondo impero con un rigore che ha qualcosa di accanito e di fanatico.
Gervaise è sì un ritratto di donna, ma è anche la Parigi della tristissima condizione operaia, ai tempi della borghesia all’attacco, senza rimorsi né scrupoli, perché troppo intenta a farsi le ossa e ad arricchirsi approfittando della rivoluzione industriale; ritorna a noi il mondo di Prudhon e di Courbet, anche se il loro robusto e sanguigno realismo è ottenebrato, in Gervaise, da un seguito orribile di disgrazie e di mali. È chiaro che il sottile regista è stato attirato dalla dolente figura della protagonista e da un’aspirazione, poetica, lirica, molto più che culturale, a restituirci il tempo dei nonni, quando il fermento del mondo nuovo non faceva ancora paura ai «beati possidentes». Il risultato è di una tetraggine che non sempre l’arte e la sapienza dell’interprete e del regista riescono a riscattare senza che resti nel nostro animo un’eco deprimente. Un’eco che poco ha da spartire con il sereno giudizio delle opere nelle quali i dati fumosi e incoerenti dell’esperienza svaniscono per merito di una superiore visione della fantasia. In parole povere, si ha l’impressione che i difetti del testo letterario siano riusciti ad aduggiare, dopo tanti anni e tante esperienze, anche la trascrizione in film della scalognatissima vicenda di Gervaise.
La protagonista, zoppetta ragazza di campagna, sedotta a quindici anni da un bellimbusto che poi l’ha condotta a Parigi, viene abbandonata con due bambini. Coraggiosa e tenace, Gervaise sposa un bravo muratore e ne ha un altro figlio. Con sacrifici indicibili e con l’aiuto di un amico generoso, essa riesce a mettere su un negozio di lavandaia e stiratrice. Nel frattempo, il marito è scivolato dal tetto di una casa in costruzione e si è fatto assai male. Guarisce, ma non è più l’uomo di prima; beve continuamente, e ruba i faticati risparmi di Gervaise. Un giorno ospita addirittura in casa l’ex-amante della moglie che ronza, ombra inquietante e importuna, nel quartiere. Gervaise resiste con tutte le forze, anche perché le sorride un nuovo affetto: un fabbro morigerato e buono, colui che ha prestato il denaro per la bottega.
Il limite di resistenza è però varcato quando il fabbro, socialisteggiante, è messo in prigione dagli implacabili giudici del «piccolo Napoleone». Gervaise cede al vecchio amante e così perde l’amore di colui cui tanto teneva.
Ora tutto precipita: in una crisi di «:delirium tremens», il marito fa a pezzi le suppellettili, e, muore all’ospedale mentre il mascalzone, che è all’origine delle sue sventure, la pianta. Gervaise si riduce all’osteria, come ebete, un corpo stanco da cui l’anima è partita.
Se la prima parte, rilevata e forte, è di prim’ordine, la seconda, quando Clément ‘è costretto a seguire il testo originale, c’è parsa meno felice, troppo minuta, trita, di un verismo senz’ala. Maria Schell, è bravissima; quei suoi chiari occhi di vittima destinata allo scannatoio (il romanzo da cui Gervaise è tratto, si intitola appunto «L’assommoir») fanno uno stupendo contrasto con l’abbiezione di chi la circonda.