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Rassegna stampa di Nino Manfredi

Nino Manfredi (Saturnino Manfredi) è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, musicista, è nato il 22 marzo 1921 a Castro del Volsci (Italia) ed è morto il 4 giugno 2004 all'età di 83 anni a Roma (Italia).

IDA BIONDI
MYmovies.it

Laureato in Giurisprudenza, allievo dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica, esordì come attore teatrale al Piccolo di Roma, incontrando anche Eduardo De Filippo. Di non minore interesse, le sue esperienze presso il Piccolo di Milano, dove recitò con attori come Vittorio Gassman ed Evi Maltagliati. Nello stesso tempo, come doppiatore, prestò la sua voce all'attore francese Gérard Philipe, ma anche a colleghi italiani come Renato Salvatori e Marcello Mastroianni. Dopo avere formato un trio con Paolo Ferrari e Gianni Bonagura, ottenne un vivissimo successo di pubblico e di critica, lavorando nel teatro di rivista, come creatore di macchiette comiche, tratteggiate con bravura e fine efficacia scenica. Nel 1956 comparve in televisione in uno sceneggiato di Anton Giulio Majano, L'alfiere; da allora, la sua presenza sul piccolo schermo divenne sempre più significativa e costante, in molteplici campi, dagli spot pubblicitari per il caffè Lavazza, alla conduzione di Canzonissima (1959-1960), in cui diede vita all'indimenticabile macchietta del barista di Ceccano, reso noto dalla celebre battuta "Fusse che fusse la vorta bbona". Di ben altro impegno, la partecipazione al Pinocchio di Luigi Comencini, in cui interpretò il ruolo di Geppetto (1972). Comparve anche, come umano e misurato commissario di polizia, nel serial Un commissario a Roma, per riprendere poi, nel 1997, in età ormai matura, i panni di un tutore dell'ordine in pensione, nella fortunata serie Linda e il brigadiere, a fianco di Claudia Koll. Tuttavia, la maggiore notorietà derivò a Manfredi dal suo impegno nel cinema, in cui esordì nel 1949, interpretando Torna a Napoli (Mario Sequi) e apparendo in seguito, fino al 1960, in numerosi altri film, alcuni dei quali degni di attenzione, come Camping (1958, Franco Zeffirelli), e Audace colpo dei soliti ignoti (1959, Nanni Loy). In quello stesso anno poté anche dimostrarsi attore completo, multiforme, di molteplici possibilità drammatiche, interpretando il ruolo di protagonista ne L'impiegato (1959, Gianni Puccini), un film a cui aveva lavorato, in collaborazione, anche al soggetto e alla sceneggiatura. In esso, Manfredi delineò con maestria il modesto e grigio personaggio di un impiegato, che, solo con la sorella nubile e ormai non più giovane e con il gatto Romoletto, non trova altro conforto alla sua misera quotidianità che abbandonarsi, nella sua solitaria cameretta, all'accanita lettura di rotocalchi e racconti di avventure, sprofondando poi nel sonno e vivendo, in dimensione onirica, una vita alternativa, che lo vede protagonista di mirabolanti peripezie, accanto a donne bellissime e fatali. Dal 1960 in poi, Manfredi diede vita a personaggi sempre più interessanti e psicologicamente approfonditi, delineati con viva umanità, anche se talora non privi di un certo manierismo. Tra le sue più riuscite caratterizzazioni vanno ricordate quella del carabiniere ne Il carabiniere a cavallo (1965, Carlo Lizzani), quella del giovane Omero, scambiato per un gerarca fascista, in Anni ruggenti (1962, Luigi Zampa), quella di Stefano ne Il gaucho (1964, Dino Risi), quella del protagonista de Il padre di famiglia (1967, Nanni Loy), e parecchie altre, in film comico-brillanti o in episodi di film antologici. Non è possibile in questa sede citare tutta la sua ricchissima filmografia, che comprende numerosi capolavori, quali La ballata del boia, Made in Italy, Il padre di famiglia, Girolimoni, Pane e cioccolata, C'eravamo tanto amati, Cafè Express, Brutti, sporchi e cattivi. Di particolare rilievo, l'episodio L'avventura di un soldato, da lui interpretato e diretto nel film L'amore difficile (1962), in cui riuscì, con mezzi limitatissimi, senza dialogo ma con mimica eccezionale, a dar vita al personaggio del soldato, creatura letteraria di Italo Calvino, e il film Per grazia ricevuta, una delle più interessanti e problematiche opere di argomento religioso prodotte in Italia.

SILVANA SILVESTRI
Il Manifesto

Se la generazione del dopoguerra ha voluto restare giovane per sempre, anche per recuperare gli anni perduti, Nino Manfredi questo dono lo ha ricevuto a piene mani, chissà come avrà fatto Luigi Comencini a vedere in lui il padre per eccellenza, Geppetto, in quel latin lover ironico, laureato, aperto e anche di idee avanzate. Il barista di Ceccano che diceva la battuta «Fusse che fusse la vorta bona» e faceva impallidire i funzionari Rai che tentarono anche di eliminarlo da Canzonissima `59 con motivi insulsi (non ci riuscirono) perché diceva la sua su tutto. Fu un momento alto di successo popolare, arrivato dopo almeno dieci anni di teatro.
Avanguardista a quindici anni, si ammalò di pleurite dopo una lunga escursione sulla sua pesantissima bici, ma in ospedale si costruì un banjo con la sedia e quello fu l'inizio della sua fortuna. Oltre a non essere preso dai tedeschi quando si nascose in montagna per un anno dopo l'8 settembre. Perché Manfredi le cose non le ha mai fatte a metà, o bene o niente, così come insegnava il padre maresciallo che voleva far laureare i figli e ci riuscì. Il suo debutto sul palco della chiesa della Natività di via Gallia fu con l'orchestrina dei chitarristi dell'ospedale, lo vide Carlo Campanini che lo voleva subito con sé, ma lui non accettò perché doveva studiare. Frequentava la facoltà di legge e contemporaneamente all'Università, faceva l'assicuratore, il bookmaker, lavorava alle poste per pagarsi gli studi. Solo dopo la laurea in legge entrò in compagnia, Maltagliati-Gassman, poi Strehler e Eduardo che vedeva in lui un successore: ma ancora una volta disse di no, onoratissimo. Il regalo che gli fece Eduardo fu proprio quello di tirargli fuori quel modo inedito di parlare, il dialetto ciociaro, lui che era nato a Castro dei Volsci in provincia di Frosinone nel 1921, da famiglia di emigranti.

ALBERTO CRESPI
L'Unità

Avevamo conosciuto Manfredi ad un festival di Mosca, dove sia lui che Sordi partecipavano come registi (lui per Nudo di donna, Albertone per Io so che tu sai che io so); qualche tempo dopo l’avevamo ritrovato, e lungamente intervistato, durante una straordinaria Festa nazionale dell’Unità in quel di Roma, all’Eur, dove ci aveva confessato un sincero trasporto per quello che allora ­ nell’84 ­ si poteva ancora chiamare «il popolo comunista». In entrambe le occasioni non era stato facile parlare di cinema. Aveva altri valori: prima di tutto, un fortissimo senso della famiglia, che lo portava ad elogiare la moglie Erminia per qualunque cosa buona avesse fatto nella vita. Quando doveva parlare della propria formazione, citava sempre due uomini. Il primo era il nonno, un ciociaro che era emigrato in America senza mai vederla perché di giorno lavorava in miniera e di notte dormiva: il nonno che aveva inculcato nel giovane Saturnino (era il suo nome completo) il senso del risparmio, dell’appartenenza alla terra, delle radici («In casa non c’era il bagno ­ raccontava sempre Nino ­ e il nonno ci diceva: oggi fatela sotto il pero, domani sotto il melo, così li concimate. Quando mi trasferii a Roma per studiare all’Accademia gli spiegai cos’era il water: nonno, gli dissi, in città la gente la fa in una tazza, poi tira l’acqua e finisce nelle fogne. Ammazza che tempi, rispose lui, se butta via tutto!»). Il secondo era Orazio Costa, che fu suo maestro di recitazione all’Accademia d’arte drammatica e un giorno gli diede l’imprimatur, dopo una recita di una tragedia shakespeariana (Amleto, se la memoria non ci inganna) che il giovane Nino aveva interpretato con grande serietà, ma di fronte alla quale i compagni di corso avevano riso. «Tu hai un grande dono ­ disse Costa all’alunno umiliato e offeso ­ sai far ridere. Di far piangere son capaci tutti, ma far ridere riesce a pochi».

MARIA PIA FUSCO
La Repubblica

Albe', lasciami un posto in Paradiso, così continuiamo a scherza', sennò m'annoio...". Così Nino Manfredi aveva salutato Alberto Sordi nel giorno della sua scomparsa. "Ora sono rimasto solo io", aveva detto, quando se n'era andato l'ultimo compagno con il quale aveva condiviso, seppure lungo strade diverse, il viaggio che aveva reso grande il cinema italiano. Una strada lunga, per Manfredi, percorsa fino a La luz prodigiosa, il film di Miguel Hermoso che gli ha fatto raccogliere l'ultimo, appassionato abbraccio dal pubblico della Mostra del cinema di Venezia, a settembre del 2003. Che lo ha consacrato anche, e ancora una volta, con il Premio Bianchi consegnato nella mani della moglie Erminia.
Il cinema per tutta la vita. Ma non l'unico banco di prova per quella vena comica e genuina, alimentata dalle origini "burine" mai dimenticate, anzi, valorizzate, quelle radici ciociare delle quali aveva conservato la schiettezza rustica, l'approccio disincantato con le persone e le cose, la testardaggine. Un attore squisitamente italiano, premiato dalla stima del cinema internazionale: nell'estate 2003, al Festival di Mosca, La fine di un mistero, in cui Manfredi interpreta il poeta spagnolo Federico Garcia Lorca, era stato premiato come miglior film.

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Prima della morte, i momenti peggiori di Nino Manfredi erano stati due. Uno nel 1959, dopo il successo straordinario d'una sua macchietta televisiva: «Ancora oggi», ricordava, «appena mi vede la gente attacca subito: Nino Manfredi, Ninetto Manfredini, il barista di Ceccano, quello della tv... Allora i produttori mi offrivano cifre pazzesche per interpretare film intitolati “Fusse che fusse la vorta bona”, “Ninetto ciociaro col carretto”, “Pecore, amore e Ciociaria”, “Nino ciociaro sopraffino”...Maledetto ciociaro, voleva la mia rovina: ma io non mi sono lasciato tentare, sono riuscito a sopravvivere». L'altro momento, recente, fu quando affondò in una crisi di depressione: e sua moglie Minia non dimentica come venissero a trovarlo gli amici malati di nervi, Vittorio Gassman soprattutto, a volte anche Paolo Villaggio, e come si scambiassero lugubri confidenze durante le cosidette «cene catastrofiche». Del resto anche la sua vocazione di comico era nata dal dramma, però sentimentale: era innamorato di una ragazza che un pomeriggio lo piantò; la sera, al Teatro delle Arti di Roma dove recitava diretto da Orazio Costa ne La dodicesima notte di Shakespeare, furono papere, battute saltate, gesti inconsulti, una pena, un macello; ma gli applausi rimasero gli stessi di tutte le altre sere. Di qui lo shock: pensò che finchè interpretava Shakespeare, Pirandello o Ibsen non avrebbe mai conosciuto il proprio valore; decise di affrontare senza la protezione di un testo importante quel pubblico che urla soltanto «'A coso, facce ride! ». Veniva Da tre anni d'Accademia d'Arte Drammatica e da tre anni di Piccolo Teatro di Milano, andò in rivista con le sorelle Nava (Tre per tre Nava), con Billi e Riva, con Wanda Osiris, fino alle commedie musicali di Giovannini e Garinei, Un trapezio per Lisistrata, Rugantino. Faccia da contadino o da soldato, occhi bruni ridenti, Nino Manfredi è stato un attore comico straordinario, di grande sapienza e ritmo, dotato di rara comunicativa, sempre recitante «in levare», spesso irresistibile. Eppure i suoi personaggi più memorabili non sono comici: l'italiano platinato emigrante in Svizzera di Pane e cioccolata di Franco Brusati; la bestia prepotente di Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola; Geppetto nel Pinocchio di Luigi Comencini; il portantino d'ospedale di C'eravamo tanto amati, ancora di Scola; il maestro di Lo chiameremo Andrea di Vittorio De Sica; l'architetto di sinistra de Il padre di famiglia di Nanni Loy. E soprattutto il protagonista de L'avventura di un soldato tratto da un racconto di Italo Calvino, bellissima opera prima muta di Manfredi regista, e l'altrettanto ammirevole protagonista del primo lungometraggio da lui diretto, Per grazia ricevuta. Come comico era molto divertente, si capisce, uno dei più bravi: ma Nino Manfredi è sempre stato un uomo serio. Erano serie le sue manie, secondo la moglie che lo vedeva sussultare perchè un portacenere non era stato vuotato, impallidire davanti a un armadio in disordine, angosciarsi per una lampadina fulminata non sostituita, per una bolletta pagata in ritardo. Era serio il suo modo di guidare l'automobile: mai seperati i centoventi l'ora, ogni macchina tenuta con una cura tale che una volta gli valutarono due milioni una Porsche pagata tre milioni cinque anni prima. Erano seri il suo rispetto per il danaro, per la proprietà, «la roba»; e la sua prudenza nel pensare all'avvenire, nel non sprecare nè buttare mai via nulla, nel non fare mai il passo più lungo della gamba. Poteva sembrare poco seria la sua maniera di esprimersi sempre fittamente intessuta di parolacce, doppi sensi, grossolanità, intemperanze dialettali: ma era serio il suo senso della moralità. Quando venne accusato di oscenità per uno sketch interpretato nel film Le bambole, quasi scoppiò a piangere nell'aula del tribunale di Viterbo davanti al giudice esterrefatto: «Ma come? Io, che sono un padre di famiglia esemplare? Cosa racconterò adesso ai miei figli, come giustificherò ai loro occhi questa vergogna? ». Più che la tristezza metafisica del comico, aveva addosso il malumore fisico dell'epatico: dall'infanzia soffriva di una disfunzione biliare e per questo quasi non mangiava, beveva soltanto acqua minerale, caffè d'orzo o the leggero, era di carattere nervoso e un poco tendente all'ipocondria. Non si conosceva poi, nel cinema italiano, un perfezionista come lui. La prima cosa che sentivi dire dalla gente di spettacolo era: «Manfredi? Bravo, simpatico. Ma che rompiscatole, che scocciatore, maniaco, pignolo, puntiglioso, cavafiato...». Esasperava gli sceneggiatori con infinite proposte di revisioni, riscritture, sostituzioni di battute. Tormentava i registi: mai contento, avrebbe ripetuto cento volte la stessa scena, voleva sempre ricominciare da capo. Del cinema sapeva tutto: come si adopera la macchina da presa, come si usa la moviola, come si applica la tecnica di doppiaggio (aveva doppiato molti attori americani, Gèrard Philipe e una volta anche Marcello Mastroianni). Pure di musica si intendeva, essendo stato da ragazzo brillante suonatore di mandolino e poi di banjo, con irritazione del padre sottufficiale di polizia che il banjo glielo ruppe anche in testa. Un perfezionismo da timore, spiegava Nino Manfredi: «Far ridere per me non è un istinto, è una grossa fatica. Perciò sono pavido almeno quanto sono presuntuoso. Cerco di prevedere tutto perché ho paura. Una paura tremenda».

LUIGI PAINI
Il Sole-24 Ore

C’eravamo tanto amati. Per cinquant’anni, e forse più. Non c’eravamo mai lasciati con Saturnino Manfredi. Ognuno di noi conserva nella memoria e nel cuore un “pezzetto” di mesto grande attore: le sue battute in ciociaro, l’aria sorniona (ma sempre intelligente, vispa, viva: gli occhi non mettevano mai di luccicare, avevano visto troppo per essere ingannati), i mie personaggi interpretati a teatro, alla radio, al cinema, in tv.
Ha raggiunto Marcello, Vittorio, Ugo, Alberto: voci, e soprattutto volti dell’Italia lungo mezzo secolo. Commedia, soprattutto, il ramo dello spettacolo in cui da sempre siamo maestri. Ma non sono state solo risate: dietro ai frizzi e ai lazzi e ai fescennini si è quasi sempre mostrata la volontà precisa di rappresentare in modo critico, ebbene bonario, i vizi del nostro Paese.

FABIO FERZETTI
Il Messaggero

Nel poker d’assi della commedia all’italiana Nino Manfredi occupava una casella tutta sua che per certi versi potremmo dire la casella del debole, se non addirittura della “vittima”, con tutte le virgolette del caso. Vittima inconsapevole, vittima di se stesso e della propria mitezza, vittima della Storia o delle circostanze, talvolta capace di riscattarsi con pazienza certosina e grande adattabilità. Non era una scelta deliberata, anche se l’uomo gestiva con molta attenzione il proprio talento. Era il frutto dell’incrocio fra l’inclinazione personale alle mezze tinte e al patetico, doti rare tra i nostri attori comici, con gli spazi lasciati liberi dagli altri “colonnelli” della risata.
Così, se Sordi reinventava le patologie quotidiane degli italiani, se Gassman incarnava il lato atletico, rodomontesco, dei vizi nazionali, se la sensualità padana e pre-moderna di Tognazzi sembrava assorbire con ingordigia le mutazioni subite dal corpo sociale, Manfredi finì per ritagliarsi il ruolo apparentemente più defilato dell’uomo in lotta contro condizioni avverse. Del personaggio che gioca di sponda, che approfitta di un’occasione unica nella vita, che reagisce a una situazione insostenibile, paradossale o addirittura assurda con le armi della buona fede, dell’onestà, di un’integrità di altri tempi. Non il nuovo che avanza, insomma, incarnato con tracotanza dai Sordi e dai Gassman, quanto piuttosto il vecchio che arranca. Restando non di rado travolto.

RITA SALA
Il Messaggero

È entrato nella storia dello spettacolo italiano e, se chiedete a un ragazzo chi sia, l’interrogato risponde: «Nino Manfredi? Un attore del cinema». In realtà, leggendo la sua biografia o parlando di qualcuno che era al Sistina nel 1963, anno della storica prima edizione di Rugantino , Manfredi vien fuori, prima di tutto, come interprete di teatro.
E’ in ogni caso vero che l’estroverso signore di Ceccano ha dedicato al palcoscenico solo i suoi inizi e, nel corpo di un importante epilogo televisivo, alcune fiammate finali. Debuttò, ventenne, con il Piccolo Teatro di Roma negli scespiriani Riccardo III e La tempesta , quindi sostenne alcuni ruoli nelle produzioni di Eduardo De Filippo. Studiò e lavorò anche con Orazio Costa, che ha poi sempre considerato il suo maestro di arte scenica. Non ha resistito, nel corso di una lunga carriera, piena di prestazioni diverse e sempre onorata da vastissima popolarità, alla tentazione di scrivere di proprio pugno per il teatro, primo amore. Sono degli anni Ottanta due performances nei panni di drammaturgo e interprete, Viva gli sposi del 1984 e Gente di facili costumi del 1988: commedie di ambiente, ritratti di gente fotografata nel vivere quotidiano, con temi e problemi spiccioli, comuni a tutti, nella mente e nel cuore: i “piccoli classici” sentimentali che l’attore amava identificare e rappresentare. Senza contare certe sue prove televisive, prima fra tutte il Geppetto del Pinocchio di Comencini, che possono senz’altro essere considerate testimonianze teatrali di gran rilievo.

ALDO COSTA
Il Messaggero

In 55 anni di carriera aveva recitato in oltre 110 film, diretto da fior di registi come Vittorio De Sica, Ettore Scola, Nanny Loy, Alessandro Blasetti, Antonio Pietrangeli, Luigi Zampa, Dino Risi e Luigi Magni. Nei suoi film Manfredi ha impersonato il ritratto di un italiano furbo ma non vile, allegro ma non spensierato. Nato il 22 marzo 1921 a Castro dei Volsci (Frosinone), Saturnino (detto Nino) Manfredi, dopo aver preso la laurea in Giurisprudenza per far contenti i genitori, inizia a frequentare a Roma l'Accademia d'Arte Drammatica.

GIAN LUIGI RONDI

Grandi del cinema italiano a poco a poco se ne vanno. Dopo Tognazzi, Mastroianni, Gassman e Sordi, adesso è la volta di Manfredi. Il contrario del mattatore. Perché aveva avuto la possibilità, vietandosi di dominare la scena (e poi lo schermo), di vincere con sottigliezze maggiori, imponendosi molto più con il garbo e addirittura i silenzi che non con la spavalderia.
Anche lui, come gli altri, l’avevo conosciuto agli esordi, quando ancora studiava e faceva teatro. Ponendosi però degli interrogativi su quella che poteva essere la sua strada. Optò decisamente per il cinema dopo la sua prima prova impegnativa, nel ’60, protagonista dell’«Impiegato» di Gianni Puccini, un film che sotto certi aspetti ricordava Sogni proibiti con Danny Kaye. Umile, modesto, evadendo solo nei sogni, Manfredi vi creò un personaggio che riusciva a tenersi perfettamente in bilico tra la malinconia e la caricatura: con una sapienza straordinaria.

VALERIO CAPRARA
Il Mattino

Tra i «mostri» della commedia all'italiana è stato il più minuzioso, il più, scientifico. Come ha scritto Dino Risi: «Lo chiamavo l'orologiaio. Attore con la lente incastrata nell'occhio, attento ai minimi particolari. Conoscitore come pochi dei meccanismi per far ridere. Un professore di scienza della risata. Tutto calcolato, ma in modo che sembrasse naturale». Forse non si tratta di un grande complimento, perché proprio sulle imprevedibili storture del gesto e dell'espressione nonché dei sentimenti e delle opinioni quel mega-genere vincente ha plasmato i suoi mattatori; ma grazie a questa dote Nino Manfredi, nel periodo migliore della sua sterminata carriera, riesce per esempio a conferire un surplus di surreale svagatezza ai suoi eroi, piccoli uomini costretti a ritirarsi di fronte alle ciclopiche sfide della vita.
Meno legato di Sordi, Gassman e Tognazzi alla fisicità prepotente e esuberante, si è, insomma, inventato con infinita pazienza e accanito perfezionismo una tecnica del tutto originale, fondata sulla scomposizione e ricomposizione del volto intorno alle emozioni: sconcerto e ansietà, diffidenza e dubbio, felicità e godimento, entusiasmo e convinzione. Bagliori d'immortalità schermica, colti con impagabile finezza dal superfan Oreste del Buono: «Gli occhi luccicano, si velano, scompaiono dietro le palpebre, riluccicano, ammiccano, riscompaiono dietro le palpebre come per non ferirci con il loro luccichio, le labbra si increspano, si arricciano, si assottigliano, si schiudono, si gonfiano, traboccano con o senza parole, continuano a parlare persino nel silenzio. I lineamenti cambiano per seguire ogni sfumatura d'umore sino in fondo e riportarne alla superficie la vera essenza. Per l'esattezza: il simbolo, la cifra, il segnale della vera essenza. La finzione come verità delle verità».

FRANCESCO BOLZONI
Avvenire

Sembrava che a Saturnino Manfredi (nato a Castro dei Volsci, Frosinone, il 22 marzo 1921) tutto dovesse capitare quando meno se lo aspettava. Come al protagonista di un film che lui, già attore di molto successo, aveva ideato, interpretato e diretto nel 1971: Per grazia ricevuta. Tale regia seguiva di ben otto anni uno short, Avventura di un soldato (un episodio di L'amore difficile), un piccolo, inatteso capolavoro di ritmo.
In larga parte autobiografico, Per grazia ricevuta confermava il talento registico e l'originalità dei materiali narrativi di Nino Manfredi che non nascondeva, anzi, il suo "patrimonio" culturale di origine contadina e, anche in questo, contrastava con l'entroterra di tanti nostri registi di derivazione borghese. I personaggi, le scene da Italia strapaesana, l'uso di un dialetto sodo di cui si stava perdendo l'abitudine erano tenuti insieme da un filo meditativo insolito nel cinema italiano. Benedetto, il protagonista del film, risultava essere un uomo "tentato" da Dio. Aveva cercato di sfuggirgli da ragazzo. Ma, per l'intensa esistenza, si vedeva costretto a rifare i conti con se stesso senza mai riuscire a calcolare la somma finale. Questa questione della scelta, un aut aut a cui il personaggio cercava di sfuggire, fu centrale nella vita stessa di Manfredi.

FRANCO MONTINI
La Repubblica

Nino Manfredi viveva in una grande villa affacciata su una silenziosa piazza dell’Aventino. Attorniato da tutta la famiglia, moglie , figlie , nipoti, generi, Manfredi ha trascorso in questo quartiere la maggior parte della sua vita. Da attore invece è più difficile identificano con una precisa zona di Roma, anche perché da La domenica della buona gente, 1953, di Anton Giulio Majano, storia corale di destini che si incrociano sullo sfondo del derby calcistico Roma-Napoli, fino al recente tv-movie La notte di Pasquino di Luigi Magni, Manfredi ha girato nella capitale una buona parte degli oltre cento film interpretati..
Un viaggio nei film di Manfredi scorre dalle estreme periferie borgatare di Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola, 1976, fino agli angoli più noti e conosciuti del centro storico. In molti casi i riferimenti romani sono annunciati fin dal titolo: I ragazzi dei I Parioli,1959,di Sergio Corbucci, dove l’attore interpreta per altro un ruolo di rincalzo, quello del ragionier Giuseppe Spallotta; Trastevere, 1971,di Fausto Tozzi film corale che prende spunto dalle avventure di un cagnolino smarrito, dove Manfredi è il primo nome del ricco cast; Roma bene, 1971 , di Carlo Lizzani dove Manfredi è il commissario Carmelo Mazzullo, chiamato ad indagare sulle grandi meschinità e i piccoli crimini di una classe borghese al tramonto.

MARIA PIA FUSCO
La Repubblica

Manfredi non ha avuto abbastanza premi, non tanti quanti ne avrebbe meritati con la sua lunga e bella carriera, ed era uno di quei personaggi che ammetteva in tutta onestà di apprezzare e di desiderare i riconoscimenti, li considerava segni di stima e dì affetto, alimento essenziale per un attore.
E che attore. Tenace, caparbio, dotato di un’in-telligenza acuta e istintiva. Da sempre, da quando, ancora Saturnino, con il padre maresciallo di Pubblica Sicurezza e tutta la famiglia sì trasferì a Roma da Castro dei Volsci, il paese in provincia di Frosinone in cui era nato il 22 marzo 1921. Erano gli anni Trenta, i mezzi nella famiglia Manfredi, come in tante famiglie, erano scarsi. Ma non era la povertà il problema del ragazzo Manfredi, bensì una ribellione segreta, una voglia di eludere le regole della scuola e poi del collegio Santa Maria, da dove non a caso scappò più volte. Manfredi voleva altro, voleva uscire dal futuro d’impIegato di concetto o al massimo di avvocato, come sognava la famiglia.

STEFANO ZECCHI
Il Giornale

L'Italia sapeva leggere l'italia: questo certamente è accaduto in un determinato periodo del dopoguerra. Poi, come se le pagine del libro della nostra storia fossero state strappate, non siamo più… I riusciti a comprendere il racconto dell' Italia in cui siamo. Oggi la politica usa una (…) terminologia che invita al coinvolgimento reciproco, che suggerisce il confronto: concertazione, squadra, fare sistemai.. Ma nonostante le buone intenzioni del lessico, non sappia-mo più guardarci in faccia e, credo, abbiamo finito per perdere contatto sia con la realtà, sia con noi stessi.
Nonostante le notizie così importanti di questi giorni, dalla visita del presidente americano agli attentati in Medio Oriente, ai poveri martiri massacrati nel nome dell'Islam, è ernozionante lo spazio che ha trovato la notizia della morte - peraltro una morte già da un anno tristemente annunciata - di Nino Manfredi. Un bravo attore, popolare, ma soprattutto un protagonista dì quella commedia all'italia-na che potrebbe ribattezzarsi così: quando gli italiani sapevano guardarsi in faccia.

GLORIA SATTA
Il Messaggero

Manfredi, ciociaro e orgoglioso delle sue origini, è stato attore, scrittore e regista sul grande schermo, in tv e sul palcoscenico. Sposato da 49 anni con l’ex indossatrice Erminia Ferrari, lascia quattro figli e una serie d’interpretazioni memorabili in circa 110 film. La sua ironia un po’ ruvida, velata di amarezza, lo ha accompagnato fino alla fine. Ricevendo un premio a Taormina, giusto un anno fa (e domenica prossima il festival gli dedicherà un omaggio), Nino Manfredi già stanco e malato si rivolse al pubblico del teatro Greco che tributava una standing ovation a Gregory Peck, scomparso da poche ore: «Ahò, quando toccherà a me, siate altrettanto calorosi...». Il pensiero della morte ha accompagnato la sua esistenza fin da quando, giovanissimo, era sopravvissuto alla tubercolosi. Maschera romanesca, alfiere di una recitazione asciutta che Dino Risi paragonava a quella di Eduardo, negli ultimi anni Manfredi esprimeva un’amarezza costante: contro il cinema ingrato che l’aveva relegato in un angolo; contro le istituzioni incapaci di promuovere scuole di sceneggiatura; contro i nuovi comici, portatori di incassi ma «limitati nel talento»; contro l’«involgarimento generale» che non risparmiava nemmeno il suo amatissimo mestiere. E proprio in onore di questo mestiere, l’attore ha continuato a lavorare senza tregua. Soprattutto in tv, interpretando personaggi di anziano fortemente connotati o coraggiosi, dall’ex poliziotto di Linda e il brigadiere all’omosessuale di Difetto di famiglia .

ALDO FITTANTE
Film TV

Li chiamavano “I colonnelli della risata”: Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vitforio Gassman e lui, Nino Manfredi da Castro dei Volsci, Frosinone, in piena Ciociaria. nell’arco di una decina d’anni se ne sono andati tutti, lasciando la commedia all’italiana orfana, svuotata senza rimedio. Una stagione che con la morte di Nino Manfredi si è, definitivamente, chiusa. Colonnelli di una risata cinica e brutale, sorridente e divertita, che per lustri ha accompagnato l’Italia e gli italiani e qualche spicchio d’Europa (francesi soprattutto). Gli anni 50 del neorealismo rosa e, subito dopo, il boom. In un paese che si sopravvalutava, confidando essenzialmente nell’arte di arrangiarsi, nel sole e nei mandolini, nelle nuove utilitarie che, improvvisamente, occuparono larga parte dei territorio e nei sogni non di rado frustrati che spingevano verso impossibili conquiste. La commedia all’italiana, i suoi registi e i suoi autori ma prima di ogni altra cosa, i suoi attori, l’avevano presa di mira, questa Italia. E, con affetto ma anche con specchiata cattiveria, giustamente la maltrattavano. Nino Manfredi era uno di quei corpi, di quei volti, di quei tic, perfetto rappresentante di una medietà romana nata piccolo borghese e agognante ricchezza e prosperità. Non a caso uno dei primi ruoli importanti di Nino è stato L’impiegato, diretto da Gianni Puccini. A differenza di Sordi, Manfredi giocava di rimbalzo: stava morettianamente in disparte, nella speranza di farsi notare. Un commediante che assommava i suoi caratteri calcolando le sottrazioni, i silenzi, gli sguardi obliqui, gli occhi stralunati, gli accenti di una italianità affogata nei regionalismi e nelle strutturali divisioni geografiche e culturali.

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