Negli ultimi due film nei quali ce lo ricordiamo (poi ne ha fatti altri, mai arrivati in Italia), faceva il giudice: corpulento, ammantato di nero, un pòstufo e sbrigativo, con quello sguardo acuminato che scrutava imputati e testimoni da dietro o da sopra gli occhiali. I film erano Hurricane di Norman Jewison e Pazzi in Alabama di Antonio Banderas, entrambi del 1999. E lui, il giudice, era uno degli ultimi cattivi grandi e grossi rimasti in circolazione sullo schermo (oggi, i cattivi tendono tutti a essere allampanati o per lo meno subdolamente medi, stile Hopkins-Hannibal). Un cattivo d’animo, di cuore, di pancia, più che di pugni, capace di far strabordare dallo schermo il rancore, la rabbia, l’infida durezza e la mania di grandezza che la vita aveva costruito addosso a personaggi degni della sua stazza e del suo sguardo: Rod Steiger, nato nel 1925 vicino a New York, fuggito di casa e da scuola a quindici anni e approdato, dopo la guerra in Marina, all’Actors Studio di Strasberg negli anni d’oro di Elia Kazan, Marlon Brando, Karl Malden. Fu proprio con loro, e con l’altra compagna di corso Eva Marie Saint, che Steiger arrivò al cinema (dopo una particina in Teresa di Zinnemann e dopo una famosa interpretazione televisiva di Marty di Chayefsky, che al cinema avrebbe avuto il volto più bonaccione di Ernest Borgnine) nel 1954 in Fronte del porto. Faceva il fratello corrotto di Marlon Brando, il fratello inevitabilmente più vecchio, cinico e scafato, anche se nella vita era addirittura più giovane di un anno. Ma allora, Marlon Brando era ancora un outsider insofferente e bruciacchiato alla ricerca di ideali, mentre Rod Steiger pareva aver già imparato quali armi usare per farsi strada nella vita, pareva già indurito dal cinismo. La nomination al l'Oscar come attore non protagonista arrivò istantanea; non lo vinse ma, in un duello di Metodo di classe inaudita, tenne testa al maggior divo di Hollywood con una caratterizzazione che doveva avere bene in mente Francesco Rosi quando nel 1963 gli offrì la parte di Eduardo Nottola, consigliere comunale corrotto e speculatore edilizio di epica malvagità, in Le mani sulla città. Nel frattempo, Steiger aveva affinato e ampliato la gamma dei suoi cattivi: il produttore ricattatore di Il grande coltello (1955) di Aldrich, lo Iago in chiave western di Vento di terre lontane (1956) di Daves, il capobanda che trucca la boxe di Il colosso d’argilla (1994) di Robson, sempre contro duri proverbiali, Jack Palance, Ernest Borgnine, Humphrey Bogart. Ma Rod Steiger era ancora più duro, perché la sua era una durezza da caratterista, senza scampo, senza vie di fuga o di salvezza. Nel 1959, con il ruolo di protagonista in Al Capone di Wilson, aveva anche iniziato una personale galleria di megalomani della storia che sarebbe proseguita con Mussolini, Rasputin, Pilato, e culminata con il Napoleone di Waterloo (1970) di Bondarchuk. Ma uno se lo fece scappare, e probabilmente sarebbe stato quello che gli avrebbe dato maggior gloria: il generale Patton, che rifiutò e che ebbe la grinta decisa di George C. Scott e fu ricoperto di Oscar. Comunque, dopo una seconda nomination, questa volta da protagonista, per il tormentato ritratto dell’usuraio scampato ai campi di concentramento nazisti di L’uomo del banco dei pegni (1965) di Lumet, l’Oscar arrivò anche per Steiger, nel 1967, per la caratterizzazione sanguigna dello sceriffo razzista di La calda notte dell’ispettore Tibbs di Jewison.
Un cattivo sui generis, più ottuso e rozzo che altro, di quelli che poi un plot saldamente democratico e classico riescono a redimere in nome dell’amicizia e del rispetto. E forse era soprattutto in queste parti a mezza strada, baciate spesso dall’ironia e da una specie di rabelaisiana vitalità che venivano fuori le doti migliori dell’attore: quando faceva la commedia nera (l’impresario funebre nel Caro estinto di Richardson o il serial killer gentile in Non si maltrattano così le signore di Smight) o quando lanciava candelotti di dinamite di fianco a James Coburn in Giù la testa (1971) di Sergio Leone, Rod Steiger diventava quell’enorme pagliaccio impastato di tragedia che probabilmente portava racchiuso nel cuore. Aveva sense of humour, e lo dimostra nei due film recenti citati all’inizio: quei due giudici imponenti che, proprio perché hanno la sua faccia, immaginiamo duri e magari ingiusti, imprevedibilmente assolvono gli imputati, il pugile Hurricane e l’uxoricida Melanie Griffith. Con quel guizzo negli occhi dietro gli occhiali e con un sorriso di suprema autoironia.
Da Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2002