The Hours

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Un film di Stephen Daldry. Con Meryl Streep, Nicole Kidman, Julianne Moore, Miranda Richardson, Ed Harris.
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Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 114 min. - USA 2002. MYMONETRO The Hours * * * - - valutazione media: 3,40 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Tre donne unite dal destino di un libro profetico. Valutazione 3 stelle su cinque

di GreatSteven


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sabato 15 settembre 2018

THE HOURS (USA, 2002) diretto da STEPHEN DALDRY. Interpretato da NICOLE KIDMAN, JULIANNE MOORE, MERYL STREEP, TONI COLLETTE, JOHN C. REILLY, ED HARRIS, CLAIRE DANES, ALLISON JANNEY, STEPHEN DILLANE, MIRANDA RICHARDSON, EILEEN ATKINS
«Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi». Queste le parole con cui Virginia Woolf, a Sussex, nel 1941, si accomiata dal marito Leonard prima di riempirsi le tasche della veste di pesanti pietre e annegarsi in un fiume. La fonte d’ispirazione del film è l’omonimo romanzo di Michael Cunningham, vincitore del Premio Pulitzer nel 1999, che traccia la storia di tre donne vissute in altrettanti periodi diversi ma unite da un destino che a che fare con un capolavoro letterario. Nel 1921, Virginia Woolf, a Richmond, si appresta a cominciare la stesura di Mrs. Dalloway incitata dal coniuge, combattendo faticosamente al contempo contro la malattia mentale che la sta dilaniando. Nel 1951, a Los Angeles, Laura Brown, nata McGrath, deve preparare una torta di compleanno al marito Daniel insieme al figlioletto Richard, ma non appena inizia a leggere il romanzo della Woolf comincia a mettere in discussione la vita finora scelta, decidendo infine di abbandonare una volta per sempre la sua famiglia. Nella New York contemporanea, Clarissa Vaughan, affermata editor, si sente una moderna signorina Dalloway mentre compra i fiori e si accinge a preparare la festa di addio per l’amico di vecchia data ed ex amante Richard, poeta e romanziere divorato dall’AIDS che ha conquistato un importante premio di letteratura. La vicenda di queste tre donne, vissute in epoche differenti, confluiscono in una mistificazione che diventa l’identificazione di un attimo meravigliosamente condiviso, quelle ore del titolo che compongono un unico giorno capace di cambiare da capo a fondo le loro esistenze. Almeno tre i momenti di bravura ineccepibile, ognuno per ciascuna era: la litigata fra Leonard e la Woolf alla stazione in cui lui le rinfaccia i motivi che l’hanno costretta ad essere ricoverata in manicomio per i suoi disturbi mentali, e dove lei risponde opponendo uno strenuo ma efficace baluardo di tenue speranza; la visita, a casa di Laura, dell’amica Kitty, durante la quale questa le confessa di avere un’escrescenza all’utero che le impedisce di rimanere incinta e coronare dunque il suo sogno di diventare madre; il dialogo conclusivo fra Clarissa e Richard, ancora addolorato mezzo secolo dopo per l’abbandono della madre, che si ammazza defenestrandosi ripetendo all’amante di un tempo le stesse parole con cui Virginia annunciò il proprio suicidio al consorte scrivendogli l’ultima, commovente lettera. L’opera di Daldry si muove su due binari essenziali: l’amore e la morte, indissolubilmente congiunti dalla passione della letteratura e dal mestiere che essa fornisce, anche e soprattutto come mezzo per affrontare e superare il dolore interiore, sia per chi la pratica sia per chi la legge. Il senso di vuoto e la depressione inconciliabile con le aspirazioni e le indoli che accomunano i personaggi di Kidman, Moore e Harris sono il punto di forza di questa pellicola dai molteplici significati profondi che racconta il tema della sublimazione sentimentale con un versamento alquanto negativo, consegnando una morale pessimistica che però non si rivela del tutto triste perché lascia aperto lo spazio al ricordo affettuoso del tempo trascorso assieme, il quale fornisce le risposte ai gesti estremi compiuti dai personaggi immensamente umani di questa triplice storia non perché li giustifica (non sarebbe corretto da una prospettiva etico-morale), ma in quanto esplica le motivazioni che spingono a soffrire in maniera autoreferenziale. Le difficoltà incontrate lungo il cammino non impediscono a questi caratteri tanto tenaci quanto segnati nel vivo di stringere legami fondamentali per la vita, i quali, sebbene poi finiscano per non salvarla, le attribuiscono comunque un senso giacché non concedono adito a nessun singolo attimo di tempo sprecato. È anche un panegirico tutt’altro che forzato alla potenza delle capacità artistiche: chiunque possieda una dote in questo campo, può valorizzarla per comprendere come non soffrire più malgrado la quantità seppur immane di dolore accumulato. Per non implodere nell’autocommiserazione. Col naso ritoccato, Kidman s’è guadagnata un meritatissimo Oscar interpretando una delle più eccelse scrittrici del XX secolo dando magica rilevanza al momento della composizione del suo lavoro maggiormente coinvolgente ed appassionante, mentre dal canto loro Moore e Streep sono, rispettivamente, una moglie e madre depressa che capisce troppo tardi le conseguenze della sua azione avventata sul figlio e una lavoratrice infaticabile che si dà anima e corpo per far sì che l’ultima esperienza di una persona a lei cara (un Harris tanto sconsolato quanto realista) rimanga scolpita nelle menti e nei cuori di tutti coloro che, come lei, gli hanno voluto un bene dell’anima. Il resto di un cast davvero stellare contribuiscono a completarlo Collette con la sua grazia intristita, Danes con la sua giovanile incoscienza, Janney come compagna lesbica di Streep dalla forte e sentita compartecipazione, Reilly col suo ottimismo felice e un po’ ingenuo (perché ignaro, fino all’ultimo, del problema che divora la moglie dal di dentro), Dillane col suo amore pragmatico che funziona da viatico per la frustrazione della moglie professionista della penna, Harris con la sopracitata praticità che gli funge con suo sommo dispiacere da mezzo autodistruttivo, Richardson nei panni della sorella di Virginia, Vanessa Bell, rivelatasi anch’essa un individuo in pena e Atkins come fioraia che non crede nelle potenzialità artistiche di Harris denigrandole tanto le poesie quanto il romanzo come qualcosa di improponibile da leggere.

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