12 anni schiavo |
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Un film di Steve McQueen (II).
Con Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti.
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Titolo originale 12 Years a Slave.
Biografico,
durata 134 min.
- USA 2013.
- Bim Distribuzione
uscita giovedì 20 febbraio 2014.
MYMONETRO
12 anni schiavo
valutazione media:
2,94
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Tra Spielberg e Tarantino: l'Anna Frank d'Americadi Nik DecoFeedback: 921 | altri commenti e recensioni di Nik Deco |
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martedì 29 aprile 2014 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Nessuna descrizione può risultare tanto appropriata come quella data da Steve McQueen in merito alla sua ultima, olimpica,fatica registica, 12 anni schiavo: il film evento dell’anno è “una storia d’amore”. Uscito a febbraio nelle sale cinematografiche italiane, la pellicola, vincitrice di 3 Academy Awards (miglior film, miglior attrice non protagonista e miglior sceneggiatura non originale), basandosi seppur con qualche licenza narrativa sull’autobiografia di Solomon Northup, narra la reale storia di un violinista nero (magistralmente interpretato da Chiwetel Ejiofor) che a metà ‘800 viene ingannato, privato della sua libertà e venduto come schiavo. Dapprima per William Ford e successivamente per Edwin Epps, Solomon lavorerà in Louisiana come schiavo nelle piantagioni per 12 anni, prima di poter ricongiungersi con la propria famiglia, creando durante la prigionia un profondo legame affettivo con la schiava Patsey (Lupita N’Yongo) che lo accompagnerà fino al termine della narrazione. Non bastano i premi cinematografici, seppur numerosi e prestigiosi, a descrivere un film che a buon diritto completa ma non conclude il discorso partorito da un illuminato cinema hollywoodiano con il pastorale ritratto politico del Lincoln di Spielberg e il sanguinario ed eccentrico, ma mai banale o riduttivo, Django Unchained di Tarantino. Sono proprio questi registi a cui McQueen si riallaccia fondendo stili narrativi e artistici dell’uno e dell’altro, dando origine a una armonica e conturbante mescolanza di amore, violenza e nostalgia. La forza motrice dell’opera sta proprio nell’affermazione dialogica tra la violenza e l’amore: il regista si rende capace di superare l’olocaustica concezione cinematografica della schiavitù, fatta di dramma e omaggio, per approdare ad una risoluzione del tutto nuova nella trattazione del tema. Gli occhi di cui McQueen si serve per sondare il campo relazionale dei personaggi non sono gli occhi omniscenti del regista, e nemmeno quelli del suo protagonista. L’innovazione si riscontra nella scelta del protagonista: non è Solomon, non è nessuno schiavo. È Edwin Epps (Michael Fassbender, per questo ruolo condidato all’Oscar), l’insensibile schiavista di stampo tarantiniano che apporta al film una concreta dose di violenza e odio. Non l’estroso gusto sanguinario di Tarantino, bensì una violenza reale, esacerbata che molto ricorda il Munich di Spielberg. Solomon e Petsey vengono posti in secondo piano: non sono che narratori terzi della loro tragedia, incapaci di comprendere razionalmente la brutale realtà che li circonda ma fiduciosi nel fatto che l’amore è presente in tutti, persino nella più profonda inumanità. Ma se la costante speranza di fraternità tra bianchi e neri di Solomon in conclusione risulta essere legittimata da quei bianchi che gli garantiranno la libertà, il desiderio di giustizia degli altri personaggi viene sistematicamente frustrato. Nei concenti campi di cotone il blues e il gospel richiamano alla provvidenza divina: gruppi di schiavi esausti trovano la forza per sopravvivere nel canto, richiamo spirituale di una forza travolgente ma assente, l’amore appunto. Il simbolismo musicale non si riduce a ciò: il violino di Solomon è l’unico mezzo che stabilisce il legame con il suo passato da uomo libero, sia che lo condanna ad essere riconosciuto come diverso dagli altri neri, “allevati come bestie” per servire i padroni. Tuttavia McQueen, a differenza dei suoi mentori, pur padrone di eccellenti spunti riflessivi, manca di quella capacità di approfondire e portare a compimento ciò che viene proposto. La regia è rapida, corre di fronte a un film che in alcuni tratti risulta superfluo e in altri fin troppo esauriente (incerta la scelta di lunghe inquadrature fisse su volti, azioni e paesaggi), lancia messaggi ed emozioni allo spettatore in continua sequenza, e prima che si possa compiere l’atto di partecipazione emotiva alle vicende narrate, subito è necessario riprendere i fili della narrazione, nervosa e incompleta. Narrazione frutto del desiderio del regista per una narrazione omniscente e un narratore che è, all’opposto, forzatamente passivo e spettatoriale. Non basta neanche la vena di sadismo, leitmotiv di McQueen già in Shame e in Hunger, approfonditamente trattata, a conferire al film la concretezza e il pathos necessari a definirla un capolavoro. La tentata fusione delle provate visioni spielberghiane e tarantiniane si risolve in una regia immatura, che non soddisfa le aspettative di un’opera così importante. Non un’occasione sprecata, ma sicuramente non sfruttata al meglio. I migliori frutti del film sono concepiti dagli attori, magnifici e accademici nei loro rispettivi ruoli e capaci di trasmettere tutto ciò che una così importante sceneggiatura è tenuta a inculcare. Un film ben distante dai livelli raggiunti dalle precedenti opere sullo schiavismo, ma sicuramente una tappa fondamentale nel percorso di maturazione del regista, e capace di offrire un innovativo punto di vista, svincolato dai canoni di compassione e generalizzazione per così tanto tempo seguiti dal cinema hollywoodiano. Una dettagliata descrizione, un diario di sentimenti su una tragedia così grande vista da occhi tanto piccoli.
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