Luigi Magni è un regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 21 marzo 1928 a Roma (Italia) ed è morto il 27 ottobre 2013 all'età di 85 anni a Roma (Italia).
«Ho sempre diffidato delle ricostruzioni sull’egemonia comunista nel cinema. Mi sforzo di ricordare come eravamo, quaranta o cinquanta anni fa. E mi pare proprio di poter dire che i grandi attori, quelli che erano e sono ancona come miei fratelli, e cioè Nino Manfredi e Marcello Mastroianni, se ne sono sempre fregati altamente della politica. Erano proprio due ciociari, persone semplici, con l’arte nel sangue, un grande senso dell’amicizia, certamente antifascisti. Ma che andassero la sera al Bottegone a prendere ordini, è inverosimile, ridicolo. E anche falso che ci fossero registi come Roberto Rossellini o Federico Fellini in qualche modo vicini alla Democrazia cristiana. Figuriamoci: il loro amore per le donne era incompatibile con il partito di De Gasperi e Andreotti. La verità è che – negli anni Cinquanta e Sessanta – il cinema era un grande affare, per i produttori. Si staccavano milioni di biglietti e questo ci rendeva liberi, più liberi di adesso. Alberto Sondi aveva una paura, sì, me lo ricordo come fosse ora: temeva l’inferno, voleva a tutti i costi andare in paradiso. Era un bacchettone, un sacrestano nato Quando dovevamo girare Nell’anno del Signore, con la condanna a morte dei due carbonari Leonida Montanari e Angelo Targhini, ghigliottinati in piazza del Popolo nel 1849 per ordine dei Vaticano, lui voleva a tutti i costi farci modificare il finale. Gli dispiaceva che il papa facesse brutta figura, io gli spiegavo che non potevamo cambiare la storia, che c’è ancora una lapide che ricorda il luogo della decapitazione. Bino Cicogna, il produttore, ci teneva moltissimo ad avere Alberto nel cast, mi dava i calci sotto al tavolino perché lo accontentassi. Sordi cercò di convincermi che anche io sarei finito in mezzo alle fiamme eterne, “guarda che questo film è contro la chiesa, non pensi all’aldilà, quando muori non vuoi andare in cielo?”. Io ridevo. Lui, serissimo: “Peggio per te”. Alla fine, il film l’abbiamo fatto rispettando la verità. Al punto che gli spettatori romani – il film è stato in prima visione per tre mesi al Metropolitan – uscivano dalla sala e andavano in piazza del Popolo a vedere se la lapide c’era davvero».
Luigi Magni, che tutti chiamano Gigi, abita da sempre in via del Babuino. Una casa quasi da scapolo, che divide da quarant’anni con la moglie Lucia, scenografa e costumista. Dalla piccola terrazza sui tetto, si vedono le cupole delle chiese gemelle di piazza del Popolo. Alle pareti dello studio, ritratti di patrioti ottocenteschi, collezioni di soldatini nelle vetrine, tanti libri antichi, una stampa con dedica di Bettino Craxi. «Avevo girato per la Raidue diretta da Giampaolo Sodano una serie su Giuseppe Garibaldi, Il generale, ricordo che alla proiezione dello sceneggiato, Bettino era in lacrime, commosso. Craxi era molto meglio dei lazzaroni che aveva attorno: è stato sempre una persona sincera, ha ammesso i finanziamenti ai partiti davanti al Parlamento. La verità, se vogliamo essere seri, è che noi siamo un popolo di ladri, potremmo parlare ogni anno di Tangentopoli, a partire dallo scandalo della Banca Romana, altro che Banca d’Italia, lì c’erano le amanti del re, i figli di Garibaldi, Menotti e Ricciotti, tutto il Palazzo era coinvolto nei pasticci».
La passione per la storia italiana, in particolare per i momenti di passaggio e di cambio di regime, accende la creatività del regista romano. La sua trilogia più celebre racconta, attraverso le vicende umane dei Pasquino, dei Ciceruacchio, dei papi e dei cardinali, lo scontro fra il potere temporale della chiesa, «una vergogna, la vergogna civile d’Europa, come diceva Mazzini», e lo stato sognato dai patrioti. «Ho sempre creduto che il grande errore che ci portiamo dietro tuttora fu quello di mettere l’Unità d’Italia nelle mani dei Savoia-Carignano, che non erano all’altezza, anziché dei Borbone, o dei Savoia-Aosta. Il regno spostò l’asse nazionale al Nord e non tentò di sanare la frattura con lo Stato del Sud: ancora oggi, se ci si pensa, questo è il nostro problema più grande.» Figlio di Umberto, emigrato in America e tornato nel 1915, «per combattere e liberare Trieste», e di Assunta, «bellissima e innamorata, lo aspettò per tutti e quattro gli anni della guerra», Gigi Magni era un ragazzino studioso e ubbidiente, «le medie al Col di Lana, il liceo alla Dante Alighieri. Mio padre si era iscritto al Fascio un giorno in cui, camminando in divisa per via del Corso a braccetto con mia madre, lo avvertirono che c’erano i socialisti che sputavano ai soldati. Lui, che era orgoglioso della sua vita militare, andò a prendere la tessera. Non fu mai un fascista ortodosso, io invece sì: ero moschettiere e capo manipolo, stavo per essere promosso avanguardista, quando il 25 luglio del 1943 cadde il regime. In poche ore, passai dalle canzoncine tipo “Duce tu sei la luce, Dio ti manda all’Italia come manda la luce, Duce, Duce” alla ribellione. A scuola, avevamo un professore straordinario, don Paolo Pecoraro, un eroe antifascista. Fu lui ad avviarci alla Resistenza, leggevamo il Vangelo e pensavamo: questo Gesù è uno dei nostri, è proprio un compagno. Io ero piccolo, avevo quindici anni, venivo mandato a mettere nelle caselle delle lettere “La voce operaia”, mi sentivo interamente un cattocomunista. Uno dei nostri leader era Adriano Ossicini, c’era Bruno Grieco, che poi sarebbe diventato il capo del Partito comunista mentre Togliatti era a Mosca. Al momento della Liberazione, con i governi guidati da Togliatti e De Gasperi, sperammo davvero in una nuova era. E invece, ci trovammo cancellati, scomunicati, cacciati dalla nostra patria spirituale con un editto. Sono sincero: ho sofferto moltissimo per la scomunica, allora. Non andavamo bene per i preti, in quanto comunisti. E venivamo guardati male dal partito, perché cattolici. Ero un ragazzo triste, introvenso, orfano dei genitori. Mi ha salvato il cinema».
I cattocomunisti riemergono quando Enrico Berlinguer diventa segretario del Pci. Magni, che è amico di Giovanni, fratello di Enrico, «abita qui a due passi, in via San Giacomo, ci frequentiamo da mezzo secolo», racconta di alcune sue visite al segretario, in via Botteghe Oscure. «Era un uomo straordinario, molto diverso da come è stato raccontato», poi non resiste alla battutaccia: «Mangiavamo pupi insieme, era bello», per esorcizzane la nostalgia del tempo che fu. Oggi, c’è Silvio Berlusconi, «abbiamo cantato insieme, ha una passione autentica per noi cinematografari, con noi si sente a casa e forse si rilassa. Al compleanno di Alberto Sordi in Campidoglio, credo si sia proprio divertito». Dei politici di oggi, Magni dice di avere stima per i suoi due ultimi sindaci, «anche loro innamorati di questa città», e di avere gradito moltissimo un gesto di Piero Fassino, «mi ha mandato un telegramma di auguri per il mio compleanno». Ha un conto in sospeso con la Lega, «non possiamo dare netta a loro e ricominciare con la guerra civile», ma soprattutto gli brucia l’etichetta di «regista anticlericale» che gli hanno appiccicato addosso i critici. «Sono ancora un cattocomunista convinto. I miei migliori amici, oggi, sono i missionari comboniani che ho incontrato in Africa. Ho risposato mia moglie in chiesa dopo vent’anni di matrimonio civile, quando ormai la scomunica si era scolorita. Cosa devo fare per convincere il re di tutti i critici di destra, Gian Luigi Rondi, che non ce l’ho con la chiesa? Scriviamolo bene. Chissà che, dopo quanant’anni di persecuzioni, non mi lasci tranquillo.»
Scendiamo insieme dall’attico. Via del Babuino, in estate piena, sembra quella di una volta. «Mi ricordo quando buttavano la sabbia sui sampietrini per attutire il rumore delle carrozze e in ogni angolo potevi sentire il rumore dell’acqua delle fontanelle.» C’era una volta una certa Roma, per fortuna c’è ancona un testimone prezioso di un’atmosfera sconosciuta ai più.
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006