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Rassegna stampa di Gian Maria Volonté

Gian Maria Volonté. Data di nascita 9 aprile 1933 a Milano (Italia) ed è morto il 6 dicembre 1994 all'età di 61 anni a Florina (Grecia).

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Grandissimo attore, ha recitato le maschere del potere e dell'impotenza d'Italia, i protagonisti della violenza, della mitezza paziente e delle zone torbide d'ambiguità, il bene, il male, la reticenza: come i veri grandi, la cui ambizione eroica e impossibile è sempre quella di rappresentare tutto. Uomo coraggioso e morale, ha fatto le sue scelte con coerenza senza rinunce nei momenti difficili, senza compromessi né viltà. È stato il più ideologico degli attori italiani: non per passione d'ideologia o perché fosse di sinistra o partecipasse a manifestazioni o si esibisse nel teatro di strada, ma perché ha voluto, cercato e spesso avuto ruoli forti significativi, personaggi da vivere e far vivere, non da indossare come vestiti. Con gli anni era diventato quasi bello (così magro, così elegante, così desolato), ed era molto simpatico. Oltre la timidezza scontrosa, la riservatezza riottosa, la fermezza pudica nell'astenersi dai riti banali e a volte scemi dello spettacolo, in certe piccole risate sussultanti o in certi scatti tempestosi riconoscevi l'uomo delle passioni: quello che andava in barca per mare durante intere giornate o settimane, che amava la politica, che amava le donne (dopo la separazione dalla prima moglie Tiziana Mischi, altre compagne o mogli erano state Carla Gravina, Armenia Balducci, Angelica Ippolito), che amava la vita e aveva saputo battersi da guerriero anche contro un tumore ai polmoni costatogli anni di sofferenza e d'assenza. Milanese, s'era diplomato all'Accademia d'arte drammatica nel 1957, aveva recitato in teatro (Fedra, Sacco e Vanzetti, Sogno d'una notte di mezza estate, Romeo e Giulietta, Zio Vanja) e alla televisione (Rogozin ne L'idiota, sceneggiato da Dostoevskij). Era arrivato al cinema nel 1960 in Sotto dieci bandiere di Duilio Coletti come ci arrivano gli attori di teatro: con diffidenza, per caso, per fare un po' di soldi. Invece era un destino. Ha portato sullo schermo uomini- chiave (Enrico Mattei, Aldo Moro, Ben Barka, Lucky Luciano) e figure cruciali della società (operaio settentrionale, contadino meridionale, militare, magistrato, comunista sotto il fascismo, sindacalista, poliziotto, criminale, leader politico, giornalista e direttore e proprietario di giornali). Ha lavorato per registi stranieri (Theo Anghelopulos con Lo sguardo di Ulisse era soltanto l'ultimo, prima c'erano stati Jean-Luc Godard, Miguel Littin, Claude Goretta, altri). Ha creato un'intesa straordinaria di reciproca necessità con alcuni dei migliori registi italiani: Elio Petri (A ciascuno il suo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso, Todo Modo); Francesco Rosi (Uomini contro, Il caso Mattei, Lucky Luciano, Cristo si è fermato a Eboli); Paolo e Vittorio Taviani (Un uomo da bruciare, Sotto il segno dello Scorpione). Ma anche quando, agli inizi, compariva in Ercole alla conquista di Atlantide, oppure quando recitava ghignanti banditi sadici per Sergio Leone o rivoluzionari messicani per Damiano Damiani, a quei personaggi dava spessore, significati, una rilevanza non mestierante. Le lodi maggiori andavano alla sua versatilità, al camaleontismo perfezionista, alle impressionanti capacità di trasformarsi, all'abilità di cogliere somiglianze, al talento di diventare un altro, altri: ma chissà se erano tanto giuste. Gian Maria Volonté non imitava, non impersonava. La sua arte arrivava a svelare e restituire le caratteristiche anche più segrete d'una persona, a condensare d'un personaggio quell'essenza fatta pure di memoria, cultura, psicologia e funzione nella collettività. Vederlo recitare il poliziotto di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, l'operaio nevrotico de La classe operaia va in paradiso, il giudice ostinato di Porte aperte di Gianni Amelio, il professore testimone lucido e scorato di fatti intollerabili alludente a Leonardo Sciascia in Una storia semplice di Emidio Greco, voleva dire per gli spettatori comprendere meglio e in profondità quei ruoli sociali e anche l'Italia: non semplicemente aver assistito a uno spettacolo ma aver vissuto un'esperienza, e non dimenticarla. A Volonté piaceva andarsene per il mondo, anche per imprese imperfette come Tirano Banderas di José Luis Garcia Sanchez, storia ispano-cubana d'un dittatore latinoamericano, o come L'opera al nero di André Delvaux tratto dal romanzo di Marguerite Yourcenar o come Pestalozzi Berg di Peter van Gunten, cinebiografia svizzero-tedesca dell'educatore esemplare: "Amo girare per le culture, conoscere, dare il mio contributo soprattutto agli scambi europei". Aveva, come tanti, brutti periodi di depressione, ma tentava di combatterli con la razionalità: "Cerco di capire, di intuire le ragioni della mia depressione, di superarla se è possibile". Come tanti, provava il sentimento di vuoto e di solitudine di chi ha impegnato se stesso nelle speranze di cambiamento per ritrovarsi con il dubbio che tutto sia stato invano: "Ma disperato no, non sono. Resta sempre un terreno inesplorato dove la speranza può rinascere, e questo terreno può essere il domani".

LEONARDO JATTARELLI
Il Messaggero

Volontè, il “pensattore”. L’uomo del sociale, l’attivista politico prima che l’interprete. Il volto serio e non serioso prima che la maschera. Quel volto di chi coscientemente decide di stare dietro un obiettivo o su un palcoscenico «per una scelta esistenziale: ”no” alle forze conservatrici, sì alle filosofie progressiste». Il ribelle a modo suo, eternamente schivo, l’anticonformista a costo di tutto, l’intellettuale per il quale ogni cosa è politica «e il cinema apolitico è solo un’invenzione del cattivo giornalismo». Gian Maria Volontè, il 6 dicembre del ’94 a 61 anni moriva a Florina, in Grecia, sul set de Lo sguardo di Ulisse di Theo Anghelopoulos. E oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, oggi che non solo il mondo del cinema ma anche tv e istituzioni universitarie gli tributano il giusto omaggio, ci manca forse più di qualsiasi altro grande attore italiano che dal dopoguerra abbia attraversato una porzione di storia del nostro Paese.

ROBERTO SILVESTRI
Il Manifesto

Vale la pena rischiare di morire girando un film? E se ti dirige Angelopoulos? Gian Maria Volonté morì proprio sul set, durissimo, faticosissimo, di Lo sguardo di Ulisse, nel `94. A 10 anni di distanza il monopolio satellitare Sky e il comune di Roma (più Fandango, Ambra Jovinelli, Csc, Achivio audiovisivo del movimento operaio e teatro Ateneo) dedicano al più ribelle e mai riconciliato dei grandi attori italiani del cinema, non solo italiano, una serie di omaggi. Martedì alle 19.50 Sky Cinema Classics presenta Indagine su un cittadino di nome Volonté, documentario inedito di Andrea Bettinetti, con una sua rara intervista tv, dell'ottobre '92, al programma uruguayano Hablamos. E testimonianze, tra l'altro, di Angelica Ippolito, Carlo Cecchi, Francesco Rosi, Fabrizio Gifuni, della figlia Giovanna Gravina e del cugino Franco Volonté. Verranno anche trasmessi, via satellite, La classe operaia va in paradiso ('71) di Elio Petri (martedì 7, ore 20.45); Sotto il segno dello scorpione ('69) di Vittorio e Paolo Taviani (martedì 14), Un uomo da bruciare ('62) di Vittorio e Paolo Taviani (martedì 21) e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto ('70) di Elio Petri (martedì 28). «Gian Maria Volonté - Lo sguardo ribelle» è invece un libro di saggi e testimonianze su Gian Maria Volonté (a cura di Franco Montini e Piero Spila, edizione Fandango) e anche il titolo dell'iniziativa romana che vuole ripercorrere, approfondire e recuperare gli aspetti principali di una carriera (teatrale, televisiva, cinematografica) e di un lavoro politico esemplare, anche attraverso un dvd, un convegno e un documentario. Per rimettere a fuoco temi e problematiche rivoluzionarie, ancora necessarie nel nostro sempre meno civile paese. Volonté è stato infatti protagonista di primo piano nello scontro di classe avvenuto negli anni Sessanta e Settanta in Italia, sia dentro il sindacato attori e che affiancando il movimento in film collettivi: Dedicato a Giuseppe Pinelli, sull'assassinio dell'anarchico milanese, le responsabilità del commissario Calabresi e la «strage di stato»; La tenda in piazza (`70), sulla lotta degli operai romani della Fatme, Reggio Calabria sui moti neofascisti nel capoluogo calabrese.

MARCO CIRIELLO
Il mattino

Un pazzo con mille voci dentro. Gran bella faccia: sguardo malinconico, zigomi alti, corpo greco. Estremo, testardo, libero. Gian Maria Volonté, attore schizofrenico, un pendolo fra storia e coscienza italiana, sempre pronto a mutare, disposto a saltare da un capo all’altro dell’animo umano, a destreggiarsi, confrontarsi, calarsi in personaggi meravigliosi, dubbi, eccentrici, miseri. Maestro e ribelle. Capo e cane sciolto. Camaleontico sullo schermo, cocciuto, fermo sostenitore della sinistra nella realtà. Mettendo in fila i suoi personaggi si potrebbe tratteggiare una diversa storia d’Italia, vista attraverso l’interiorità del nostro carattere. Lui ha saputo scegliere e mettere a nudo - portandolo sullo schermo - il meglio e il peggio del nostro animo, quello espresso da una minoranza schizzata verso i poli dell’eccelso e del male: prendete i due Moro, quello sciasciano - una maschera del potere - in Todo modo di Elio Petri e quello del sequestro ne Il caso Moro - statista, vittima, grande uomo, delicato e spirituale - di Giuseppe Ferrara. Oppure il Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi, con il quale crea una spaventosa somiglianza ideale, quasi andando a coprire il vero volto, il vero corpo dello scrittore, restituendoci un doppio personaggio: con lo spessore dell’intellettuale che svela il Sud e le ragioni del suo disagio e l’aggiunta della sua ribellione, del suo viso, del Volonté e del carico di lotte che si porta dietro; la sua vita reale finisce con l’arricchire la poesia e la denuncia del libro, e poi pensate al Lucky Luciano - sempre di Rosi - emblema del malvagio, al quale lui conferisce un ghigno sinistro che spaventa; vela lo sguardo con occhiali scuri, si pettina diversamente e tac, il gioco è fatto, tanto che quando una amante del vero boss si reca sul set e lo vede, dice al regista Rosi: «È isso», è lui, eppure è la stessa faccia che si era sostituita al medico, scrittore e pittore antifascista Carlo Levi, è la stessa che sarà il coraggioso Mattei e il povero Vanzetti. In questi salti dal bene al male, c’è Gian Maria Volonté. Sì, certo il cinema è finzione, ma quanti sono stati capaci di simili prove? Quanti hanno avuto la stessa bravura nel mostrarsi malvagi ed eroici? Quanti hanno avuto la sua sincerità? E soprattutto quanti, dopo, hanno seguitato a lavorare in Italia? Volonté ha chiuso la sua carriera lavorando all’estero, qui non c’era posto per lui. È morto a Florina in Grecia nel dicembre del 1994 sul set de Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos. Prima aveva girato a Cuba il Tiranno Banderas di José Luis Garcia Sànchez. L’ultimo film in Italia lo aveva visto nei panni di un vecchio professore ne Una storia semplice di Emidio Greco, tratto dall’ultimo romanzo di Leonardo Sciascia. All’estero aveva girato diversi film da L'oeuvre au noir di Andrè Delvaux a Mort de Mario Ricci di Claude Goretta, andando indietro fino a Vent d’Est di Jean-Luc Godard. Ha consumato il suo ultimo giorno a bere e cantare da solo, sul retro di un pullman che portava la troupe a Florina, passando per Skopie, i suoi occhi hanno visto la guerra bosniaca, genocidi e indifferenza, hanno visto esplodere le contraddizioni balcaniche tenute insieme dal comunismo del maresciallo Tito, hanno visto i bambini vagare fra le macerie e la neve coprire i massacri. È morto con la disperazione di aver visto dissolversi i suoi ideali di pace e giustizia, come Alex Langer, mai avrebbe pensato alla riproposizione di una guerra nel cuore d’Europa, etnica, poi, figurarsi. Ha trascorso il tempo del suo ultimo viaggio «cantando le canzoni della sinistra italiana, tutte, da “Avanti popolo bandiera rossa” in giù» disse Angelopoulos, un modo per passare in rassegna la sua vita, le sue lotte, i suoi ricordi, il suo essere stato un attore diverso, impegnato, un anarchico inventivo sul set e nella vita politica, uno scomodo volto disposto a scendere in piazza, si trattasse dei diritti della categoria: come nei primi anni Settanta per la questione voce-volto, cioè stesso attore stessa voce (adesso sembra una sciocchezza ma allora non lo era, e tutti, anche i migliori, erano doppiati) o per gli altri: sfrattati, operai, studenti, era sempre pronto ad estendere i presidi, le proteste, sfruttando la notorietà come diretta estensione di una fratellanza d’ideali. Uomo complesso, aspro, dolce, irruente, timido, radicale, riservato, ha avuto drammi familiari, amori difficili e una brutta malattia, ma non ha mai smesso di affascinare, non ha mai smesso di interessarsi al mondo, agli altri. Meticoloso amanuense nel suo lavoro, ricopiava le sue parti, incideva sui copioni, riscriveva; i fratelli Taviani - con i quali ha girato due film - hanno parlato di lui come un «autore-attore». Consigliava, improvvisava, aggiungeva, toglieva e litigava spesso con i registi, memorabili le sue zuffe con Elio Petri, con lui, però, ha girato quattro film, due dei quali oltre ad essere dei capolavori sono indimenticabili pellicole, entrate a far parte della memoria collettiva: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in paradiso. Ha fatto di più (cinque film) solo Francesco Rosi che di sicuro è fra i pochi ad aver compreso appieno il talento di Gian Maria Volonté, lo ha incoraggiato, ascoltato e usato al meglio. In ogni suo ruolo non è mai stato banale, ogni sua prova non è mai stata inutile o solo per fare, chi non lo ha visto, chi non ha assistito a questa lunga lezione di come si possa essere un principe libero e un grande attore si è perso l’unico, lucido, tenebroso, Aureliano Buendìa del nostro cinema. Ha bordeggiato la sinistra extraparlamentare, Oreste Scalzone, si è messo in salvo dai tormenti della memoria, e grazie a lui è scappato in Francia, e pare che sia anche stato il maestro di vela di Cesare Battisti. In comune con i due c’era il mare, la sua barca e l’isola della Maddalena in Sardegna, dove ora riposa, all’ombra di un albero, in un piccolo cimitero di garibaldini, marinai e pescatori. La sua è stata una lunga carriera cominciata per strada e proseguita nei teatri di provincia, dove ha fatto di tutto. I suoi inizi e la sua formazione prima dell’Accademia nazionale d’arte drammatica si devono ad Alfredo De Sanctis antico e longevo attore, custode della tradizione teatrale italiana. In televisione esordisce nel 1957 con la Foresta Pietrificata di Francesco Enriquez, ma il successo lo ottiene con L’idiota (1959), al fianco di Giorgio Albertazzi. Per loro si scomoda persino Luchino Visconti, coprendoli di elogi. Volonté è un incontenibile Parfen Rogozin, quasi un contestatore pre-sessantottino, sarà il primo di molti personaggi contaminati da «sospetti d’attualità» come li definirà Angelo Guglielmi. Poi il cinema, dalla commedia ai primi western di Sergio Leone, ci sono tutti i grandi sul suo cammino cinematografico, soprattutto quelli meno inclini al cinema di passerella, leggero. Inutile farne l’elenco, meglio rilevare le coincidenze: il suo ultimo lavoro teatrale (con esiti controversi) passava per un testo di Arthur Schnitzler (Il girotondo) come è accaduto a Stanley Kubrick. E poi la felice rappresentazione della letteratura sciasciana sullo schermo (come nessun altro) dove si sono intrecciate le storie di due uomini che mai hanno fatto tacere la propria coscienza. È mancato un film con Pierpaolo Pasolini (che era in programma e passava per Adriano Sofri), sarebbe stato un meraviglioso terzetto d’anime ribelli. Volonté sognava un Don Chisciotte con Paolo Villaggio a fargli da Sancho Panza, non ha fatto in tempo. Ci dovremo accontentare delle camminate nelle livide albe invernali che portavano in fabbrica Lulù Massa, quando la classe operaia andava in paradiso.

ALDO FITTANTE
Film TV

Gian Maria Volonté aveva il volto scavato dal talento. Era un curioso, voleva sapere tutto. Ciò che stava davanti e ciò che rimaneva nascosto dietro, quello che si poteva dire e j mille misteri di un paese che non lo ha mai amato come meritava e che lui stesso contestava e rimetteva in discussione con la sua arte, ma anche con la sua militanza politica. È stato un caso unico, un caso raro. E infatti è stato il Caso Mattei e il Caso Moro, ha ridipinto le manie, i tic, i vezzi, le oscurità del potere dei più importanti personaggi dei dopoguerra, dai citati industriali e statisti (il leader della Dc addirittura due volte) ai direttori di giornale (seppur non citati espressamente, “era” Ottone in Sbatti il mostro in prima pagina ed “era” Scalfari in Tre colonne in cronaca), dai mafiosiillustri (Lucky Luciano) ai criminali che colpirono l’immaginario popolare (il CavaIlero di Banditi a Milano). E, proprio perché così onnivoro di conoscenza, eccolo -parallelamente, contemporaneamente - nei panni dell’ispettore Moroni che indaga sulle rapine di Luciano Lutring (in Svegliati e uccidi), in quelli del primo poliziotto emancipato (Io ho paura), nel sindacalista (ispirato alla figura del socialista Salvatore Carnevale) che combatte la mafia, dell’operaio che contrasta cottimizzando il padrone (nel mitico film di Petri), dell’uomo delle istituzioni che sfida e si beffa del potere dell’altrettanto epocale Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Non sono mai banali i personaggi scelti da Volonté: sono persone, siano “grandi” o “piccole”, che fanno la Storia, che procedono investigando, che tramano ribaltando i connotati, che non si arrendono, che non di rado pagano con la morte (come Bartolomeo Vanzetti), che con puntuale, tignosa caparbietà, ribadiscono i parametri democratici del vivere civile (come la straordinaria figura del giudice Di Francesco in Porte aperte, come il professore Franzò nello sciasciano Una storia semplice). Indimenticabile la sequenza di quest’ultimo film diretto da Emidio Greco, quando Volonté riflette sul senso dei rraggionare, di far funzionare -come si dovrebbe sempre - il cervello e la propria coscienza. Vedere o rivedere le pellicole con Gian Maria Volonté significa ripercorrere la Storia, la nostra storia, la storia d’Italia (anche Giordano Bruno, la Grande Guerra di Uomini contro, i fratelli Cervi, il Partito d’Azione nel Terrorista, Le quattro giornate di Napoli, il fascismo che spediva “in viaggio d’affari” intellettuali e trotzkisti in Cristo si è fennato a Eboli e Il sospetto) e non solo d’Italia (il terrorismo basco di Ogro, le eresie della Bruges del 500 nell’Opera al nero tratto dalla Yourcenar, il dittatore Santos Banderas nella sua ultima interpretazione). Riattraversandola con gli occhi di artista che consentiva agli spettatori comuni (ben prima della voyeuristica televisione contemporanea) di avvicinarsi a quel sapere, a quella conoscenza, di cui lui si faceva paladino e promotore finanche nella vita privata. Uomini e storie semplici appunto. E personaggi stanci e accadimenti complicatissimi che il cinema abitato da Gian Maria Volonté voleva, al contempo popolare e impegnato aiutato da una stagione irripetibile per il nostro cinema, affollato da registi che facevano i registi (e non gli autori), da sceneggiatori che scrivevano informandosi e vivendo il loro tempo (e non quello speso e filtrato, oggi, dallo psicanalista). Dimenticato presto (gli anni 80 e i primi 90 lo costrinsero all’estero), premiato pochissimo, ricordato di rado, Gian Maria Volonté è stato, senza dubbio alcuno, il più grande attore italiano (e, per chi vi scrive, anche non italiano), il più poliedrico, il più duro, il più malleabile, il più fertile. Nessuno ha inciso come lui. Persino negli spaghetti-western ha lasciato il segno, con pseudonimo doc (John WelIs) che tanto faceva yankee negli anni in cui si pensava bisognasse esserlo, ghigno in grado di gareggiare con Kinski, e timbro di voce dagli echi lontani. Una vera, autentica, vulcanica forza di Volontà.

SERGIO DONATI

Il film Il mostro fu offerto a Volontè, che era allora, nei primi anni '70, il massimo. A Gianmaria piacque moltissimo quel “dietro le quinte” di un giornalismo cinico e cialtrone, ma in quel momento si sentiva troppo “impegnato” per girare un semplice “film noir”. E mi convinse a rielaborare lo stesso tema sull'attualità più bruciante di quei giorni: nacque così Sbatti il mostro in prima pagina, che dopo varie vicissitudini finì diretto (e politicamente esasperato e stravolto fino alla pallosa predicazione) da Marco Bellocchio.

SERENA D’ARBELA

Prima parte
Gian Maria Volonté, grande attore del cinema italiano, è scomparso improvvisamente, in Grecia, mentre stava girando Lo sguardo di Ulisse di Theo Anghelopoulos. La sua morte suscita il rammarico di tutti coloro che hanno a cuore il film d’impegno e di significato civile. E ricordandolo non si potrà tacere una riflessione sull’ottusità di chi soprattutto negli anni Ottanta non ha voluto offrirgli occasioni adeguate. Gian Maria Volonté è stato per il nostro schermo ben più di un attore; è stato una fonte e un testimone dei travagli degli anni dal ‘60 in poi delle aspirazioni sociali, e delle loro radici, delle trame sotterranee che hanno solcato e solcano la vita politica nazionale e internazionale.
Una storia nelle storie. Così potrebbe definirsi l’insieme delle sue interpretazioni nella dimensione filmica. Si è calato volta a volta nei panni del bracciante, del bandito, dell’operaio, del professore, del soldato, del sindacalista, del rivoluzionario, dell’anarchico, del partigiano. È ancora del funzionario di polizia, dell’uomo politico, del manager pubblico, del filosofo, nei film dei Taviani, di Petri, di Rosi, di Lizzani, di Maselli, di Montaldo, di Bellocchio, di Pontecorvo, di Puccini, di Damiani, di Loy, di Monicelli, di Goretta, di Comencini, di Vancini, di Boisset, di Littin, di Delvaux e di altri. Ha parlato dell’antifascismo militante, della Resistenza, della questione meridionale, della mafia e della criminalità metropolitana, della aggressività dei grandi gruppi capitalistici internazionali. Ha sottolineato i mali della democrazia reale e delle istituzioni nel nostro Paese negli anni 60-70, ha descritto l’abuso di potere, la caccia al rosso, la corruzione, la strumentalizzazione dei mass media, la condizione operaia moderna; è risalito alle tenebre dell’oscurantismo antico e sempre acquattato nella società italiana e nel mondo come il fascismo, come il conservatorismo, l’autoritarismo, come l’eversione.

SERENA D’ARBELA

Seconda parte
Ricordiamo Emilio protagonista di Il sospetto di Maselli (1974), l’operaio comunista fuoriuscito in Francia, rientrato clandestinamente in Italia per ricostituire il centro del partito decimato dagli arresti. Volonté entra nella parte di quest’uomo chiuso che, caduto in disgrazia presso i compagni per le sue simpatie trozkiste, vuole riconquistarne la fiducia. Immagine riuscita di un militante dei difficili anni ‘30 che si è dato alla causa fino in fondo sfidando i tranelli della polizia fascista in un terreno infido dove chiunque può trasformarsi in un delatore. E nello stesso tempo ritratto evocato-re di un clima politico eccezionale in cui all’interno del movimento operaio affiorano episodi foschi. L’attore riesce con la sua mimica e i suoi gesti a rendere palpabile nel film, forse il più concentrato di Maselli, il contrasto fra la vita normale che non smette il suo corso e il cupo e guardingo isolamento del clandestino, il suo essere braccato ed estraneo in mezzo alla folla. Nella fisionomia di Emilio, si riflette la scelta di una morale politica assoluta fino al lucido sacrificio, tipica di un travagliato periodo storico, forse comprensibile solo alla luce dei valori dell’utopia.

GIANNI RONDOLINO

A dieci anni dalla morte prematura (a 61 anni), la figura e l'opera di Gian Maria Volonté ci appaiono stranamente lontane, come di qualcosa di diverso, quasi di opposto, da quanto avviene oggi nel cinema italiano nel campo della recitazione, costruzione dei personaggi, interpretazione dei testi drammatici. Di diverso, o addirittura di opposto, perché Volonté, a differenza di molti attori (anche suoi contemporanei), sapeva dare ai personaggi che di volta in volta interpretava, in una serie di film di varia natura e genere, uno «spessore» che ne garantiva l'autenticità drammatica, la presenza schermica. Sapeva, in altre parole, calarsi nella parte, dopo averla attentamente studiata, non limitandosi a fornirle un volto, un corpo, una gestualità particolari, ma portandola a un alto livello di espressione, che spesso, quando il film non era del tutto riuscito, si imponeva per la sua forza originale, anche contro la struttura dello spettacolo, fuori del quadro di riferimento in cui era collocata. Valga per tutti l'ultimo suo film, «Tiranno Banderas» (1993) di Sanchez, tratto dall'omonimo romanzo di Ramon del Valle-Inclan. Un film mediocre, di scarsa rilevanza, che tuttavia rimane nella memoria proprio per la figura del protagonista, il tiranno Santos Banderas, a cui Volonté ha dato un proprio carattere inconfondibile, dopo averne studiato attentamente tutti gli aspetti pubblici e privati. Un personaggio che concluse quella galleria di figure reali o immaginarie che egli tratteggiò da par suo nella sua non breve carriera d'attore. Figure spesso emblematiche di una situazione storica o di un momento particolare della vita di relazione, quasi «scolpite» sullo schermo nella loro forza rappresentativa. Ma soprattutto figure diverse fra di loro, appartenenti a diversi contesti drammatici, protagoniste di film anch'essi diversi per genere e carattere, che ogni volta Volonté sapeva rendere vere. A cominciare dalla sua prima vera interpretazione cinematografica, quella del Salvatore di «Un uomo da bruciare» (1962) dei fratelli Taviani. Un film politico, di sinistra, come saranno molti altri da lui interpretati in quegli anni, in cui la sua azione a favore dei contadini sfruttati (ispirata a quella del sindacalista Salvatore Carnevale) si carica di una propria valenza paradigmatica. E saranno ancora i Taviani a fornirgli l'occasione di creare il personaggio di Renno in «Sotto il segno dello Scorpione» (1969). Ma intanto Volonté aveva dato vita a personaggi ben altrimenti sfaccettati, dal Renato del «Terrorista» di De Bosio al Ramon Rojo di «Per un pugno di dollari» di Leone, dal Teofilatto dell'«Armata Brancaleone» di Monicelli al Paolo Laurana di «A ciascuno il suo» di Petri, dall'Aldo dei «Sette fratelli Cervi» di Puccini al Cavallero di «Banditi a Milano» di Lizzani. Una versatilità addirittura camaleontica e quindi una galleria per molti versi straordinaria, per la varietà dei caratteri e dei risultati espressivi raggiunti. Galleria che si andò arricchendo, soprattutto nel corso degli Anni 70, con i personaggi dell'ispettore di polizia in «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» di Petri, del sottotenente Ottolenghi in «Uomini contro» di Rosi, del Bartolomeo Vanzetti in «Sacco e Vanzetti» di Montaldo, dell'operaio Lulù Massa in «La classe operaia va in Paradiso» di Petri, di Enrico Mattei nel «Caso Mattei» di Rosi, del direttore del giornale in «Sbatti il mostro in prima pagina» di Bellocchio, di Lucky Luciano nel film di Rosi, di Giordano Bruno in quello di Montaldo, di Emilio nel «Sospetto» di Maselli, del Presidente in «Todo modo» di Petri, di Carlo Levi in «Cristo si è fermato a Eboli» di Rosi, di Aldo Moro nel «Caso Moro» di Ferrara. E si potrebbe continuare, se l'elenco non fosse troppo lungo. Ma almeno un cenno meritano ancora le sue interpretazioni in «L'opera in nero» di Delvaux, in «Porte aperte» di Amelio, in «Una storia semplice» di Greco e soprattutto in «Morte di Mario Ricci» di Goretta, che gli valse il premio per la migliore interpretazione al Festival di Cannes del 1983.Insomma una carriera esemplare, per impegno artistico e civile, che forse non ha paragoni nel cinema italiano. Una carriera che la morte stroncò il 6 dicembre 1994, mentre Volonté stava lavorando con Anghelopulos a «Lo sguardo di Ulisse», che rimane la sua interpretazione incompiuta.

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