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Ultimo aggiornamento lunedì 11 aprile 2016
Ryuzo e i suoi 7 ex scagnozzi sono dei yakuza in pensione. Un giorno, Ryuzo diventa la vittima di una truffa di phishing. Chiama i suoi 7 uomini per riformare la loro società.
CONSIGLIATO NÌ
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Ryuzo è un anziano ex-yakuza ormai anacronistico: del tutto incapace di trovare una nuova collocazione in società, solo un peso e un fastidio per figlio e nuora. Dopo aver subito un tentativo di truffa ordito dalla Keirin Rengo, società che conduce affari loschi, decide di rimettere insieme la gang di gioventù e vendicarsi secondo le antiche usanze.
Kitano Takeshi è sempre stato protagonista di un percorso peculiare, anomalo. Partito dalla Tv (popolare) per approdare al cinema (autoriale), ha finito per fondere i due elementi e generare da questa commistione molteplici e originali opere d'arte. Affrontata una crisi creativa con la catartica trilogia dell'autocritica, culminata con Achille e la tartaruga - probabilmente la sua ultima opera maggiore - Kitano è successivamente tornato al cinema di genere, quasi palesando la propria incapacità di superarsi e scegliendo di chiudersi in un onesto e pregevole artigianato. Stanco anche di questo, ma non di girare nuovi film, alla soglia dei 70 anni il regista giapponese prova a rimescolare nuovamente le carte con Ryuzo and the Seven Henchmen, in cui la commedia surreale e scatologica di Getting Any? si incontra con lo yakuza eiga di Sonatine.
Il risultato di questo curioso ibrido è un film che vorrebbe essere il Ragazzi irresistibili o il Cocoon dei gangster movie, con la generazione canuta che si prende una rivincita sui giovani privi di un'identità certa e capaci solo di emulare (rifiutando il nome yakuza ma duplicandone di fatto, senza onore, il contenuto).
Peccato che questa intuizione resti l'unica su cui si regge Ryuzo, che tenta stancamente, per 110 interminabili minuti, di protrarre le gag degli anziani yakuza a contatto con la quotidianità del mondo. La semplicità del plot e la lentezza esasperata del suo svolgimento sono una scelta stilistica, quasi un adeguamento alla senilità dei protagonisti, ma anche un comodo rifugio di fronte all'esiguità di argomenti esposti.
Mai sin qui si era osservata in Kitano una simile trascuratezza nella forma - non c'è una intuizione registica degna di menzione, né una sequenza da donare alla posterità - così come nel contenuto - troppo esili trama e vis comica, sufficienti al più per un paio di gag. L'iconica presenza di Fuji Tatsuya, protagonista in gioventù di Ecco l'impero dei sensi di Oshima Nagisa, rimane così sostanzialmente sprecata. Nel pittoresco cast il regista si ritaglia un piccolo ruolo di poliziotto con un proprio codice etico, che richiama nel colore dei capelli e nell'andatura alcune sue maschere di un glorioso passato. Ma quel ricordo si fa sempre più sbiadito.