Shaolin - La leggenda dei monaci guerrieri

Inizio Novecento, anni Venti: la nuova Repubblica Cinese è sconvolta dalle guerre intestine tra signori feudali. I fratelli e generali Hou e Sung si spartiscono le terre, ma la tensione tra i due cresce a un punto tale che Hou complotta per uccidere Sung. Ma l'atto esecrabile gli si ritorce contro, perché Hou stesso è vittima di una cospirazione: troverà miracolosamente rifugio nel tempio di Shaolin, da lui disprezzato, dove cercare redenzione e una nuova vita sulla strada indicata dal Buddha.
Il remake di un remake sulla distruzione del Tempio di Shaolin, topos ricorrente del cinema di arti marziali. Allo Shaolin Temple del 1976 di Chang Cheh seguì infatti l'omonimo remake del 1982, debutto di Jet Li davanti alla macchina da presa. Shaolin - La leggenda dei monaci guerrieri, trent'anni dopo e con un budget ingente, figlio della prevalenza cinese sulla componente hongkonghese della produzione, adatta il racconto all'era della computer graphics. La scelta di affidare la regia a Benny Chan, noto più per action movie costruiti su misura per le acrobazie di Jackie Chan che per arditi approfondimenti psicologici, svela molto delle intenzioni della produzione, puntualmente tradotte in un'opera spesso ineccepibile dal punto di vista spettacolare - notevole la sequenza di inseguimento tra carrozze rischiarata dalle lanterne, così come molti stunt coordinati dal Corey Yuen di X-Men- e carente sul lato narrativo e stilistico.
Il cast, ricco di stelle, si traduce in un potenziale sprecato: Andy Lau (il suo precedente con Benny Chan, A Moment of Romance, è uno dei vertici del noir-melò di Hong Kong) eccede in ogni espressione pur di sottolineare la metamorfosi spirituale del suo personaggio, Nicholas Tse è una caricatura, Fan Bingbing poco più di un ornamento. Meglio la caratterizzazione di Jackie Chan, nei panni di un monaco-cuoco che non pratica le arti marziali, salvo poi regalare una esilarante sequenza di lotta con wok e stoviglie che rimanda allo spirito del miglior Chan e ai primi Bud Spencer e Terence Hill.
Le volgari approssimazioni del messaggio filosofico insito nel film, come la malvagità macchiettistica dell'occidentale invasore o la visualizzazione puerile dei segni dell'illuminazione buddista, fanno quindi parte di un gioco che privilegia il lato dell'arte marziale della mitologia shaolin a scapito di tutto il resto. Comunque troppo poco (e con troppi ralenti) per giustificare più di due ore di ambizioso apologo morale. 