Baby Bob

Film 2002 | Sitcom

Una serie con Adam Arkin, Joely Fisher, Holland Taylor, Elliott Gould, Marissa Tait, Kory Brown. Cast completo Genere Sitcom - USA, 2002,

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"baby Boss": il secondogenito che mette in riga la DreamWorks.
Recensione di Federico Pontiggia
giovedì 20 aprile 2017
Recensione di Federico Pontiggia
giovedì 20 aprile 2017

Che bellezza sia (stata) la DreamWorks lo dice fuor d'ogni dubbio il carnet: Kung Fu Panda e, ancor più, Shrek e Madagascar. Addirittura, Shrek 2 nel 2001 concorse per la Palma d'oro al Festival di Cannes, onore che un'animazione non riceveva dal 1973 (il meraviglioso Il pianeta selvaggio di René Laloux), e sancì una nuova età dell'oro per i cartoon: film davvero per tutti, grandi e piccini, con sottotesti e livelli di lettura, citazioni ed eccitazioni per ogni età, cultura, cinefilia. Sia l'orco verde che Alex il leone e compagnia mammifera continuano a incassare il plauso dei più piccoli (genitori compresi) in homevideo, e come stupirsene? Perizia grafica e - elemento decisivo - poetica ad altezza uomo: solidarietà, fratellanza, elogio della diversità, condivisione, senza noia né pietismi. Avercene. Oggi l'animazione conosce drastici cambiamenti, intaccata com'è dalla "concorrenza sleale" di motion e performance capture e dalla revisione in live action (attori in carne e ossa) dei suoi classici per antonomasia, quelli Disney: buon ultimo, La bella e la bestia di Bill Condon, con Emma Watson, che è divenuto il ventinovesimo film a superare il miliardo (1.043.120.873) di dollari al box office globale. A parabole calanti (la Pixar, fuori dalla cinquina degli ultimi Oscar) negli States e consolidate certezze made in Japan (Studio Ghibli), corrisponde un'effervescenza creativa europea, che da La tartaruga rossa (zampino Ghibli) a Ballerina (franco-canadese, oltre quattro milioni al nostro botteghino), da La mia vita da zucchina all'italiano L'arte della felicità (European Film Award 2014) fa ben sperare per le sorti del cinema in matita e, sempre più, CGI. Sarebbe sbagliato, però, allacciare alla debolezza della Pixar di John Lasseter i destini complessivi dell'animazione americana: nel 2016 il premio Oscar Zootropolis (Disney), Pets (Illumination) e Sing (Illumination) hanno conquistato cassa, pubblico e plauso critico, e ora Baby Boss prova a mettersi in scia erinverdire -Shrek...- i fasti della DreamWorks. Che sia un ritorno al futuro lo conferma l'uomo in regia, quel Tom McGrath che ha diretto i tre blockbuster Madagascar nonché Megamind nel 2010. Questo suo ultimo lavoro ha centrato per due weekend consecutivi la prima posizione del box office stelle e strisce, ha realizzato a oggi 290 milioni di dollari nel mondo e riportato il focus della DreamWorks sulla - letterale - fratellanza: "È un omaggio affettuoso a mio fratello. Si ispira - confessa McGrath - alle tante cose che abbiamo fatto crescendo insieme e mescola gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Penso che molti genitori proveranno nostalgia vedendo il film, perché è ricco di dettagli che ricorderanno loro l'infanzia". Le gioie e i dolori dell'infanzia che il best-seller di Marla Frazee, da cui è tratto, addebita massimamente al secondogenito, ovvero al nuovo arrivato e, almeno dal fratello o sorella maggiore, sempre indesiderato: Baby Boss rileva con ironia, inquadra con spasso e stigmatizza bonariamente le conseguenze familiari, concedendo onore e oneri del punto di vista al primogenito, Tim. Sette anni entusiasticamente portati, immaginazione al potere (visualizza a fumetti sogni e avventure) come nemmeno nel Sessantotto, vive d'amore e d'accordo con i genitori, finché la new entry non scende dal taxi: giacca, cravatta e ventiquattrore, Baby Boss comanda tutti a bacchetta e ben presto relega Tim nella posizione del secondo incomodo. Ma c'è di più, chi è davvero questo discolo biondo, perché è così misterioso? Tim scopre non solo che il piccolo parla, ma che cela una missione da agente segreto: salvaguardare i neonati dall'estinzione... Non c'è cucciolo animato che tenga, dopo tanti, forse troppi animali più o meno domestici, Baby Boss rimette i neonati in campo, affermandone peraltro la non sostituibilità con i cagnini: prima gli umani, insomma, e una volta tanto si può dare precedenza. Se alcune trovate, dal nastro trasportatore alle incursioni politicamente scorrette, centrano il bersaglio e fanno dimenticare prolissi e spiegoni, tra i meriti ideologici c'è la sindrome di Peter Pan anticipata allo stadio neonatale. Già, chi vuole esser lieto, sia, dopo la culla non c'è certezza...
Da Il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2017

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RECENSIONI DELLA CRITICA
giovedì 20 aprile 2017
Federico Pontiggia
Il Fatto Quotidiano

Che bellezza sia (stata) la DreamWorks lo dice fuor d'ogni dubbio il carnet: Kung Fu Panda e, ancor più, Shrek e Madagascar. Addirittura, Shrek 2 nel 2001 concorse per la Palma d'oro al Festival di Cannes, onore che un'animazione non riceveva dal 1973 (il meraviglioso Il pianeta selvaggio di René Laloux), e sancì una nuova età dell'oro per i cartoon: film davvero per tutti, grandi e piccini, con sottotesti [...] Vai alla recensione »

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