Titolo originale | Jajda |
Anno | 2015 |
Genere | Drammatico |
Produzione | Bulgaria |
Durata | 90 minuti |
Regia di | Svetla Tsotsorkova |
Attori | Monika Naydenova, Alexander Benev, Svetla Yancheva, Ivaylo Hristov, Vassil Mihajlov, Stefan Mavrodiyev, Ivan Barnev . |
Tag | Da vedere 2015 |
MYmonetro | 3,25 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento martedì 3 dicembre 2019
Una famiglia si ritrova costretta a chiedere aiuto a uno scavatore di pozzi per cercare di recuperare un po' d'acqua.
CONSIGLIATO SÌ
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Una famiglia di lavandai si guadagna da vivere collaborando con gli hotel della città. Ogni giorno un furgoncino consegna presso la loro casa, in cima alla collina, un centinaio di lenzuola che andranno lavate e stirate per la mattina successiva. La vita del piccolo nucleo familiare – madre, padre, figlio adolescente – prosegue nella sua routine, nonostante la cronica carenza d’acqua sia per tutti un problema. Per questo motivo, quando nel villaggio vicino si presentano due rabdomanti – un uomo e la sua giovane figlia – la famiglia li invita a montare le loro tende nel prato antistante alla casa: secondo la ragazza, a 17 metri sotto terra, passerebbe infatti una vena d’acqua. Ma la convivenza tra le due famiglie, nata sotto il segno di un accordo commerciale, diventa a poco a poco qualcos’altro.
La campagna del sud est bulgaro come nessuno, a occidente di Sofia, l’ha mai vista. Calda, assolata e ammaliante d’estate, con il canto ipnotico delle cicale e il passo lento degli asini e dei carri che percorrono i sentieri sulle colline.
È un setting magnifico, sospeso tra sogno idilliaco e crudezza della realtà rurale (perché in campagna manca l’acqua, il lavoro è duro e si invecchia in fretta) quello messo in scena da Svetla Tsotsorkova in un film che ha l’andamento del sogno, i colori dell’acquarello e tutta l’ambiguità di una fiaba che potrebbe – da un momento all’altro – virare in un incubo. Un racconto che si muove tra precisione e reticenza, con la ricostruzione esatta di un microcosmo familiare di lavandai, condannati a dividersi l’acqua con i paesani a valle, e passaggi della narrazione volutamente lasciati in bianco, a partire dal nome stesso dei protagonisti (l’unico ad avere un nome, in questo film, è il cane). Tsotsorkova non spiega come la bella rabdomante trovi l’acqua, non rivela la sua presunta “magia”, e taglia con sicurezza queste e altre zone della storia che potrebbero distrarre dal suo primario obiettivo narrativo. Ovvero: l’idea che nella vita anche la più ordinaria delle esistenze possa essere sconvolta, e travolta, dalla novità. Un concetto molto frequentato su grande schermo dal cinema indie americano, che Tsotsorkova tuttavia rinnova e rende personale scegliendo una chiave minimalista, scommettendo cioè su piccoli dettagli rivelatori in un film che gioca con gli sguardi come un western, in cui i personaggi parlano meno di quanto si osservino.
Una scelta rischiosa ma azzeccata, che ne esalta la notevole ricerca formale ed estetica, senza inchiodare il film a una pretenziosa lentezza: la curiosità per quel che accade da una parte e dall’altra del muro di lenzuola non si spegne mai, sostenuta dal ritmo interno di un film che - pur non avendo fretta di arrivare - scava con crudele profondità nella psicologia dei suoi personaggi. Proprio come la trivella dei rabdomanti, che buca il terreno metro dopo metro per arrivare all’acqua, lo sguardo di Tsotsorkova svela uno strato alla volta le inquietudini e i sospesi dei suoi personaggi (attenzione alla giovane Monika Naydenova, che il cinema europeo non dovrebbe lasciarsi scappare): gli adolescenti inquieti affrontano per la prima volta la sete dell’amore e del sesso, la madre lavoratrice sente il peso delle occasioni perdute, il padre deve capire come accettare la sua stessa vecchiaia. E nessuno di questi temi si fa mai ingombrante, in una storia che premia lo spettatore con un finale potente, caldissimo e inaspettato.