Anno | 2009 |
Genere | Documentario |
Produzione | Israele, USA |
Durata | 82 minuti |
Regia di | Julia Bacha |
MYmonetro | 3,00 su 2 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento giovedì 10 marzo 2011
La pace può essere costruita. Figlia e padre lottano duramente per salvare il loro villaggio dalla costruzione della Barriera di Separazione di Israele, attraverso il loro movimento non violento che unisce israeliani e palestinesi.
CONSIGLIATO SÌ
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Budrus è un villaggio della Cisgiordania situato vicino al confine con Israele dove vivono circa 1500 palestinesi molto attaccati ai loro territori e ai propri alberi di ulivo. Nel 2004, quando si avviano i lavori per la costruzione della barriera di separazione fra Israele e Palestina, il perimetro previsto dalle autorità israeliane minaccia di isolare Budrus e altri piccoli centri abitati dal resto della West Bank, sacrificando ettari di terreni coltivabili e migliaia di ulivi. La popolazione, guidata dall'attivista Ayed Morrar, decide di rispondere all'avanzata delle ruspe e dell'esercito con una resistenza non violenta. A poco a poco, si crea un fronte popolare e pacifico che coinvolge tanto le donne del villaggio e le forze nazionaliste di Hamas che un folto gruppo di dissidenti israeliani e internazionali.
Niente muove più un animo solitario o una coscienza collettiva che la minaccia di un muro, di una barriera capace di ottundere sogni, speranze e prospettive di vita. La barriera difensiva edificata dalle autorità israeliane dal 2004 in poi è stata al centro di numerose polemiche e accuse da parte delle organizzazioni civili per i diritti umani, che la considerano nella migliore delle ipotesi un tentativo di annessione da parte di Israele dei territori palestinesi occupati e nella peggiore un vero e proprio atto di apartheid. Raramente si è visto questo muro sullo schermo, sia guardandolo dalla prospettiva della sicurezza israeliana che dell'occlusione palestinese (in questo senso, Il tempo che ci rimane di Elia Suleiman è una delle rare e preziose eccezioni). Il documentario di Julia Bacha si distingue così non solo come testimonianza visiva delle prime fasi che hanno determinato la costruzione del muro, ma anche come racconto emblematico di un episodio importante sia per ragioni storiche che etiche e civili. Avvalendosi di più reporter posti sia dalla parte dei resistenti palestinesi che dalla parte dell'esercito israeliano, Julia Bacha riesce a fare ciò che la maggior parte dei resoconti sul conflitto israelo-palestinese era raramente riuscita a fare: istituire un campo e un controcampo della vicenda, rispondere tanto all'urgenza di farsi sguardo militante ed empatico con la causa del popolo occupato, che alla possibilità di farsi medium embedded, a stretto contatto con i giovani soldati israeliani. Allo stesso modo, il resoconto dei dieci mesi in cui la tenacia dei filo-palestinesi è riuscita a far spostare il perimetro della barriera, si alterna a interviste con alcuni dei protagonisti di entrambe le forze in gioco (Ayed Morrar e la coraggiosa figlia adolescente, da una parte, una ex-soldatessa dell'esercito israeliano e il portavoce del dipartimento della difesa, dall'altra). Tale approccio dal doppio sguardo non risponde a presunte esigenze paritetiche ma, tenendo conto del potere assertivo sia dell'immagine che della parola, diviene la chiave per ottenere un'indagine doviziosa e probante dell'impresa del piccolo villaggio rurale.
Ogni tanto, spuntano anche sequenze tratte dai telegiornali israeliani, a testimoniare il forte dissidio fra la voce del fronte degli attivisti e quello dei canali istituzionali sulla costruzione della barriera di difesa. Dal montaggio fra le parti (tecnica in cui la Bacha ha già dimostrato un ottimo approccio con il buon documentario su Al Jazeera, Control Room), ne emergono documenti straordinari soprattutto nella loro forza testimoniale, tanto nell'organizzazione del movimento che negli scontri e nelle tensioni che si raggiungono dopo i primi giorni di resistenza pacifica. Ma, soprattutto, ne emerge una sorta di parabola dal respiro quasi cinematografico, grazie al suo forte messaggio di convivenza pacifica che, se certamente non dirada le nubi sulla situazione, aiuta a comprendere meglio che al suo interno c'è chi si impegna in funzione di essa.
Budrus is a tiny village where something potentially very big happened, the setting for a hopeful story in an area of the world that has produced hardly any hope at all in recent years. As introduced in the surprisingly heartening documentary of the same name, Budrus is a small agricultural settlement in the West Bank, definitely not the kind of place you'd expect a popular movement encouraging nonviolent [...] Vai alla recensione »