Ava Gardner (Ava Lavinia Gardner) è un'attrice statunitense, è nata il 24 dicembre 1922 a Grabtown, North Carolina (USA) ed è morta il 25 gennaio 1990 all'età di 67 anni a Londra (Gran Bretagna).
Se n’è andata il 25 gennaio 1990, la più bella dei Quaranta e dei Cinquanta: “Simpatica come Venere”, dice Fellini. Bella non era più: Ava Gardner così splendida, bruna con gli occhi verdi e una bocca perfetta, seduttrice naturale con gambe mitiche e ardore irresistibile, era stata vinta dalla malattia che le aveva alterato, distorto la faccia meravigliosa. Il tempo no, non l’aveva sconfitta.
Fino a sette anni fa, quando per la prima volta lavorò per la televisione nel kolossal storico A.D., Anno Domini, recitando la parte di Agrippina maestra di piaceri e d’intrigo politico, resisteva tenace quel fascino profondamente femmineo, tenacemente sensuale, che nel 1946 aveva reso folgorante la sua apparizione ne I gangsters di Siodmak, e lei conservava tutte le sue civetterie, i suoi manierismi: lo scatto orgoglioso della testa che esibisce il profilo, il lungo passo falcato, le spalle da regina, i gesti larghi del mostrarsi, i sospiri sapienti della voce, le risate alte della felicità teatrale, l’ostentazione dei bellissimi piedi molto piccoli, molto bianchi, molto lisci, sempre nudi come nel titolo d’uno dei suoi film pasticciati e fatali, La contessa scalza.
A Londra, prima della malattia e anche dopo, al ritorno dalle lunghe cure praticate in America e vegliate dall’ex marito innamorato per sempre, Frank Sinatra, abitava in una bella casa con la vecchissima sorella Beatrice e con un amatissimo cane. Passeggiava nel parco, la mattina. Leggeva. Alla televisione guardava soltanto i programmi per bambini piccoli: “ Sono cartoni animati divertenti, facili, educativi. Niente violenza, soltanto cose da imparare. Molto carini, dolci”.
Soldi ne aveva guadagnati molti e continuava a guadagnarne con i “residuals”, le percentuali che negli Stati Uniti vengono pagate anche agli attori per ogni passaggio televisivo dei loro vecchi film. Ogni tanto lavorava, malvolentieri: “ Lo faccio perché il mio agente mi spinge e mi costringe, perché tutti mi ripetono che lavorare è una cosa sana e vitale. Ma a me non è piaciuto mai”.
Non le piaceva perché era una pigra ragazza del Sud, nata in un paese rurale della Carolina, settima figlia d’una contadina e di un irlandese con gli occhi verdi coltivatore di tabacco. Non le piaceva lavorare perché amava vivere:
tre mariti (Mickey Rooney, Artie Shaw, Frank Sinatra), molti amanti (anche il leggendario produttore cinematografico, industriale aeronautico e ipocondriaco Howard Hughes, anche il latino Luis Miguel Dominguin e forse Walter Chiari), troppi bicchieri, voracità di vita.
A Madrid, quand’era in amore con Dominguin e sposata con Sinatra, e nascondeva l’uno all’arrivo dell’altro, e c’erano desiderio, fughe, dolore, scenate furiose appassionanti, e tutti erano giovani, lei era sempre quella che voleva di più: la musica più alta, il cibo più abbondante, le notti più lunghe, le parole più sboccate, i balli più sfrenati, gli alcol più forti. A Roma, regina del buio assediata dal lampo dei fotografi (lei li insultava in spagnolo: “Es mierda, mierda! ”, era sempre la più bella e inquieta: come per una bambina di dodici anni, diceva Hemingway che le voleva bene, il suo metro di giudizio era unico, “mi piace”, “non mi piace”.
E lavorare non le piaceva anche perché si sentiva insicura, perché odiava Hollywood: “Avrei dovuto avere più orgoglio, più ambizione. Avrei dovuto imparare a recitare, ma non è stato possibile. Per diciassette anni, a Hollywood, sono stata schiava della Metro Goldwyn Mayer. Il contratto era più greve d’una catena. Ti dicevano: fa’ questo, e tu dovevi farlo. Se disubbidivi ti toglievano lo stipendio: restavi senza soldi, senza lavoro, e il tuo contratto s’allungava di tutto il periodo d’inattività, cosi potevano tenerti in pratica per sempre. Quando pensavi d’essere ormai una star, ti davano apposta particine umilianti, e le rifiutavi ti sospendevano di nuovo. Potevano toglierti mezzo per il tempo che volevano, tanto da far dimenticare la tua faccia, la tua esistenza”. Era il sistema industria! spiegava Ava Gardner sette anni fa in una notte sciroccosa e languida a Monastir in Tunisia, quello ribattezzato Hollywood star system: “ Dovevi appartenere a loro anima e corpo, ubbidire sempre: la rivolta degli schiavi non era prevista né tollerata. D’altra parte, senza la Mgm non sarei mai diventata una diva: non avevo ambizione, non avevo esperienza, non avevo alcuna vocazione. Ero soltanto una tra i bellissimi ragazzi e ragazze a cui facevano un contrattino e che restavano li a sperare e a scannarsi tre loro, ad aspettare il turno della fortuna: dei trenta o quaranta insieme con i quali io cominciai alla Metro ne saranno
venuti fuori forse tre, quattro”.
Di Hollywood s’era ormai liberata da tanto tempo, e pure conservava il rancore di chi non perdona o non perdona d’aver avuto un padrone: “Alla Metro non insegnavano a recitare. Insegnavano altre cose: truccarsi, ballare, portare bene i vestiti e pronunciare correttamente parole, nuotare, posare per le fotografie, montare a cavallo, stare a dieta, cantare, sorridere, fare ginnastica. Cose fisiche, cose faticose, cose noiose”.
Non inutili, però. Se sul suo modo di recitare si può a che discutere, la sua apparizione sullo schermo aveva qualità assoluta e irresistibile della grande bellezza, della grande fotogenia, della perdizione romantica: bastava Ava Gardner a rendere affascinanti film terribili come Pandora o La maja desnuda, a dare passione agli esotismi de Le nevi del Chilimangiaro, di Mogambo o de La notte dell’iguana di John Huston. Neppure lei avrebbe potuto salvare La Bibbia, ma era impossibile non amarla ne Il sole sorgerà ancora.
Tra le dive della sua generazione, Ava Gardner era l’immagine femminile più conturbante: una ragazza hemingwayana coraggiosa, indipendente, bellissima, trasgressiva, fatale, piena di dolcezze e spietatezza, capace di far morire di crepacuore, ma soprattutto una donna alla quale, si vedeva, piaceva fare l’amore.
Da vecchia, come capita, detestava veder risorgere il suo passato reso mediocre dalle biografie piccanti americane: “ Per fare la storia della tua vita quelli prendono dagli archivi tutte le porcherie, tutti i vecchi giornaletti pieni di mentiras, di bugie: li mettono insieme, e scrivono. Neanche gli puoi fare causa, perché in tribunale ti portano il giornaletto come un documento e il giudice chiede:
perché non ha smentito a suo tempo? Ma a suo tempo chi li guardava, i giornaletti? Non era certo con quelli che mi divertivo, a suo tempo”.
Quel dolore, quella perdita di identità e di sicurezza che è per ogni donna invecchiare, poteva essere mortale per Ava Gardner, la Venere dei Cinquanta: “ Ma bisogna pur imparare a vivere con se stessi. Sono stata bravissima, sono riuscita a accettarmi. Mi piaccio. Quasi”. Non sembrava infelice, prima d’ammalarsi, e comunque non lo avrebbe ammesso. Invitta lady Brett, star anti-Marilyn, ha appagato i desideri e pagato i prezzi senza mai fare la vittima né tentare il suicidio, sempre rissosa e mai lagnosa:
per coraggio, per orgoglio, magari per distrazione, va’ a sapere.
Courtesy of La Stampa
E le gambe, e quei piedi, piccoli, che Humphrey Bogart vedeva spuntare da sotto una tenda in una delle prime scene dell’appassionato e passionale La contessa scalza di Joseph Mankiewicz. Ava Gandner se n’è andata 25 anni fa, il 25 gennaio 1990. The Aviator di Scorsese ce l’ha fatta ricordare e Kate Beckinsale ci ha riportato alla mente i suoi occhi che il nevrotico e ossessivo Howard Hughes, amante più degli aerei che delle donne, mette a confronto con un grosso smeraldo (avrebbero vinto gli occhi...). Hughes diceva che le donne erano «sacchetti di caramelle»: ma era gelosissimo della Gardner che faceva spiare da infinite “cimici” in tutte le stanze.
Le testimonianze concordano: la Gardner era calda, selvaggia, fatale, attratta dalle corride e dai toreri. Era indipendente e ribelle, anche spietata. Aveva una voce ammaliante e scura: la si può ascoltare nel dvd di 55 giorni a Pechino, dove è ancona un’aristocratica, una baronessa amata da un maggiore americano, Charkon Heston. Fellini diceva che era «simpatica come Venere». Era nata nella Carolina del Nord, settima figlia di un contadino coltivatore di tabacco. Era indolente e amava più vivere che lavorare, ha avuto tre mariti, Mickey Rooney per 16 mesi, il clarinettista Artie Shaw per un anno e 8 giorni, Frank Sinatra per 5 anni e mezzo, ha avuto tanti amanti, Howard Hughes, il torero Dominguin e Walter Chiari ai tempi della dolce vita romana, quando finiva sui giornali dopo notti di balli e alcol.
Ci sono dei film che si guardano ancora solo per vedere lei: fulgida in Pandora, hemingwayana in Le nevi del Chilimangiaro, goyesca in La Maja desnuda, avventuriera disinibita in La notte dell’iguana. È lei, mora e libera, in Mogambo di John Ford, a vincere la caccia al cacciatore Clark Cable battendo la repressa e bionda Grace Kelly. Non le piaceva Hollywood, diceva che nessuno laggiù le aveva insegnato a recitare.
Meglio così. Forse non sapeva recitare. Ma proprio non importa
Da Film Tv, n. 6, 2005