Da Street Fighter a Hitman, colpi di scena ridicoli, attori dalle performance imbarazzanti, ecco i film tratti da videogiochi che hanno messo alla prova gli spettatori.
di Gabriele Niola
Poche cose possono riuscire male come un film tratto dai videogiochi. Tanto il cinema è riuscito a prendere di buono dai personaggi e dal modo di raccontare una storia dei videogame, quanto li ha sfruttati biecamente per miseri incassi con grandi nomi.
Per un Ricomincio da capo o un Source Code (film non tratti da videogiochi ma fondati sul principio videoludico della morte e rinascita continua per superare una prova) ci sono decine di titoli che hanno massacrato buon gusto e intelligenza dello spettatore. In una sorta di circolo vizioso biunivoco (anche i videogiochi tratti da film sono solitamente penosi) sembra che queste due forme d'arte narrative non riescano a comunicare, ma si succhino brand e fan a vicenda.
Tra la fine degli anni '90 e gli anni 2000 abbiamo visto il massimo del minimo finire in sala per la disperazione di qualsiasi giocatore con un minimo di speranza nel domani.
Attori noti che regalavano le loro peggiori prestazioni, sceneggiature che sembravano scritte tra un ciak e l'altro, colpi di scena ridicoli e budget che in certi casi sfiorano il ridicolo. I film tratti da videogiochi il meglio sembrano darlo quando sfociano nel kitsch.
Sebbene ad oggi quella fase di investimenti sconsiderati e sfruttamento bieco sembra ormai alle nostre spalle (ma la prossima uscita di Warcraft potrebbe farci ricredere), non per questo è il caso di dimenticare cosa abbiamo dovuto sopportare.
Non una ma due volte il cinema ha voluto mettere in scena Hitman.
Il gioco fondato su missioni da killer a pagamento, tutto pianificazione, sangue freddo e camuffamento, diventa prima un film nel 2007 e poi si merita un improbabile remake nel 2015.
L'idea, in entrambi i casi, è di umanizzare un protagonista che invece aveva il proprio fascino nel suo essere una fredda macchina di morte. Se però il primo film ha almeno il merito di portare alla ribalta Olga Kurylenko, il secondo è solo un terribile sbaglio con velleità di diventare franchise.
In anni in cui sembrava che la moda degli adattamenti videoludici fosse ormai un ricordo, arriva un progetto fuori dal tempo come quello di Prince of Persia - Le sabbie del tempo.
Con Gemma Arterton e Jake Gyllenhaal come protagonisti il film sbaglia tutto lo sbagliabile.
Non solo funziona pochissimo da solo, come opera cinematografica autonoma, ma non riesce nemmeno a comprendere cosa, del testo originale, valga la pena riprendere, quali siano le sue componenti fortunate.
Privo del fascino esotico che una simile avventura dovrebbe avere, incapace di lavorare adeguatamente sul topos eterno di una principessa da salvare e infine nemmeno in grado di creare una mitologia decente intorno all'eroe, Prince of Persia - Le sabbie del tempo si qualifica come uno degli adattamenti più svogliati di sempre.
Sembrava impossibile che un simile successo non fosse sfruttato anche al di fuori del mondo videoludico.
Circa 12 anni dopo l'uscita del primo seminale titolo e in contemporanea, non casuale, con la distribuzione del suo remake (videoludico), esce al cinema Doom con The Rock.
Questa volta le carte per un buon film potevano esserci, trama e ambientazione del gioco infatti sono tra le più cinematografiche (fanteria dello spazio spedita su Marte dove trova un inferno di demoni), tuttavia, come al solito, le idee sono al minimo consentito e pare che anche la voglia latiti.
Gioco storico, punto di riferimento di un certo modo di lavorare sugli ambienti e sulla paura videoludica, Silent Hill al cinema diventa un collage di atmosfere lugubri.
Roger Avary è a capo di un progetto che sembra non avere ben chiaro come raccontare la propria storia.
A metà tra una realtà e l'altra, i protagonisti fuggono da creature immonde e navigano con obiettivi precari in un mare di orrore. Grazie a Dio è abbastanza rispettata l'idea visiva di fondo (con il grande villain originale) ma non c'è niente nel film a dargli dignità, nulla se non un saccheggio di idee.
Addirittura tre capitoli (non sempre usciti in sala), tutti firmati da Uwe Boll.
Capolavoro del trash videoludico diventato film, la saga dei vampiri oscilla tra momenti più ispirati e cadute di stile che meravigliano anche solo per la capacità di immaginarle.
Il terzo capitolo ambientato durante il Terzo Reich, in questo senso, è unico. Ha contribuito a chiudere la pratica, a convincere chiunque che forse non è il caso di adattare qualsiasi videogioco di successo. A suo modo una trilogia imprescindibile.
Ancora orrore. Questa volta è però una pietra miliare. Alla regia c'è Uwe Boll, regista spesso abbinato a progetti dall'origine videoludica e considerato, per i suoi molti insuccessi, il peggior regista in attività.
L'esagerazione è figlia di una scarsa conoscenza di altri terribili mestieranti: in diverse occasioni Boll non ha fatto nulla per non meritare l'epiteto.
La più cocente, forse, è proprio questa di Alone in the Dark, visto che il gioco d'origine aveva parte della sua forza proprio nella maniera cinematografica in cui rivedeva il rapporto tra inquadratura e interazione. La paura videoludica lì si fondava sull'impossibilità di controllare il punto di vista sulle scene, con il risultato che non si capiva che cosa stesse accadendo. In buona sostanza, invece che mostrare il gioco, lo suggeriva. Il film invece faceva (male) il contrario.
I film tratti da picchiaduro dovrebbero giocare in una categoria a parte. Se già questi videogame, nella loro versione originale, godono di trame più che risibili, figuriamoci negli adattamenti!
Dead or Alive adatta tutta la serie di videogame, utilizzando più che altro la "trama" del primo e sfruttando personaggi che vengono anche dai successivi (se non proprio inventati).
In questo caso non sono tanto i cambiamenti apportati ma proprio l'idea stessa di un film così banale a deludere. Distribuito al cinema in pochi paesi (tra cui il nostro) è uscito solo in DVD in America ma il successo è stato tale da stimolare una piccola distribuzione anche in sala.
Completamente fuori dal proprio tempo, l'adattamento del 1998 del videogioco del 1987 è un sottoprodotto nostalgico degli anni '80.
Ambientato in una distopia che guarda a Mad Max senza coraggio, coreografato con una disarmante pochezza e alimentato da nessuna vera tensione, dovrebbe essere un buddy movie d'arti marziali ma è solo cinema infantile.
Negli stessi anni in cui ad Hong Kong veniva ridefinito l'action movie, questo film, diretto ad un pubblico molto giovane e potenzialmente sperimentale, si dimostrava il più conservatore in assoluto.
Tra i pochi film tratti da videogiochi ad essere così un successo da meritarsi un sequel solo due anni dopo, Mortal Kombat vive la tragedia della difficoltà di adattare un picchiaduro.
In questo caso un particolare rispetto dei personaggi, un totale disprezzo per qualsiasi, seria, forma di trama e un deciso orientamento sulle componenti più coatte hanno creato un cult (per alcuni) che si è tradotto anche in due serie tv prima nel 1998 e poi nel 2011 (ancora in corso).
Film insensato, anche solo a volerne apprezzare le componenti visive o le capacità di rendere l'azione, Mortal Kombat ha visto l'esordio nel genere di Paul W. S. Anderson (in seguito con più fortuna responsabile dell'adattamento di Resident Evil) nonchè la partecipazione della stella calante di Christopher Lambert.
Capolavoro del cattivo gusto, trionfo del kitsch nonchè uno dei primi film del suo genere. Street Fighter - Sfida finale capitalizzava un brand notissimo e amato, offrendolo a Jean-Claude Van Damme, idolo dell'arte marziale occidentale del periodo.
Costumi, idee, scene d'azione, coreografie e sceneggiatura sono talmente al minimo storico da risultare involontariamente ridicoli.
Indecente all'epoca, esilarante oggi. Un brutto film invecchiato anche peggio. Con un sequel, se possibile, ancora meno ispirato: Street Fighter: The Legend of Chun-Li.