Tra i film presentati in Concorso anche l'italiano Se Dio vuole di Edoardo Falcone, con Alessandro Gassman e Marco Giallini.
di Paolo Bertolin
In attesa del verdetto della giuria presieduta da Bryan Singer, il pubblico del 28° Festival di Tokyo ha potuto scoprire gli ultimi titoli in gara per il Sakura Grand Prize. Tra questi, sicuramente, il più degno di nota è il braziliano Nise da Silveira: Senhora das Imagens (ma il titolo internazionale è Nise: The Heart of Madness, perfetto per una telenovela... ). Si tratta di un film che documenta l'esperienza umana e scientifica di una psichiatra brasiliana, discepola e corrispondente di Jung che cercò di 'rivoluzionare' il trattamento della schizofrenia, rifuggendo lobotomia e elettroshock. Da un lato, il film descrive accuratamente il rapporto tra Nise e i suoi collaboratori e i pazienti (o meglio, "clienti", come lei preferiva chiamarli) in sua cura: in particolare, si sofferma sul tentativo di curare la schizofrenia dando libero spazio all'estro creativo, pittorico e scultoreo, dei suddetti - cosa che portò all'organizzazione di mostre di grande successo e al riconoscimento di alcuni dei "clienti" di Nise come veri artisti. Dall'altro, il regista Roberto Berliner pone l'accento sul conflitto di gender cui Nise deve far fronte: i suoi colleghi/superiori che mal vedono le sue pratiche 'rivoluzionarie' (definite addirittura "comuniste") sono ovviamente tutti uomini e chiamano Nise, "signora". Un film corretto e senza grandi scossoni, ma solido ed efficace, dove brilla indiscussa la prova attoriale di Glória Pires - che meriterebbe di vincere il premio d'interpretazione qui a Tokyo. Molto bello il breve contributo documentario incluso nei titoli di coda, con intervista alla vera Nise da Silveira, estratto da un documentario di Leon Hirszman.
Ha suscitato qualche perplessità l'inclusione in concorso del film nostrano Se Dio vuole di Edoardo Maria Falcone. L'esordio premiato ai David di Donatello, che fa la sua prima internazionale a Tokyo, è stato visto da alcuni come un film commerciale con un approccio al tema religioso che alcuni hanno trovato "irrispettoso" - osservazione sicuramente interessante in termini di percezione interculturale.
Ha divertito alcuni, ma non ha convinto i più il film francese Nous trois ou rien di Kheiron, che racconta l'odissea della famiglia dell'autore, regista, popolare comico d'origine iraniana. Il padre passò sette anni nelle prigioni di Teheran durante il regno dello Scià, poi con la madre e il figlio in fasce, la famiglia lasciò il paese clandestinamente, fuggendo attraverso le montagne del Kurdistan. Arrivati a Parigi, i coniugi si dedicarono all'attivismo, contro il regime dell'Ayatollah Khomeini da una parte, e per il miglioramento delle condizioni di vita nelle periferie francesi. Una storia vera edificante e sempre raccontata con il sorriso che è anche uno spot promozionale per il "paese dei diritti dell'uomo e della prima rivoluzione". Ed è proprio il DNA sin troppo francese del progetto a non convincere: recitato tutto in francese (a Teheran, a Istanbul, ma non in Francia, dove alcuni immigrati parlano le loro lingue d'origine!), il film ha un piglio da spensierata commedia popolare francese che sovente stride con la natura del materiale - riducendolo anche ad una presentazione piuttosto monocorde.
Ancor meno convincente è a conti fatti l'esordio turco Cold of Kalandar di Mustafa Kara, lungo e pensoso apologo sulla triste vita di una famiglia contadina delle montagne dell'Anatolia. L'illusione del padre di poter affrancare la famiglia dalla povertà, porterà ad un ancor più insostenibile stato di miseria. Splendida fotografia e descrizione visivamente poetica del passare delle stagioni e della vita nei pascoli non salvano un'opera che dilata i tempi e reitera situazioni in maniera insistita, cercando di replicare un'impostazione narrativa e figurativa à la Nuri Bilge Ceylan. A nostro avviso, senza riuscirvi appieno.
Ma il suo nadir il concorso l'ha toccato con l'intollerabile Full Contact dell'olandese David Verbeek, dove un Gregoire Collin tra l'arcigno e il trasognato, tra il depresso e l'ipermuscolare (ma mai convincente) inizia come 'pilota' di droni (in un'apertura che pare un facsimile di Good Kill di Andrew Niccol), per poi perdersi in paesaggi da sogno/incubo dove si materializzano i fantasmi degli integralisti che ha bombardato e ritrovarsi a Parigi a lavorare allo smistamento bagagli dell'aeroporto e a praticare arti marziali full contact in una palestra gestita e frequentata da uomini d'origine mediorientale. Nel frattempo, nel primo segmento s'invaghisce d'una spogliarellista (che seduce dicendole d'essere impotente!) che ritroviamo nel terzo capitolo come responsabile dei bagagli non reclamati. Ecco, se questo sunto suona assurdo e pretenzioso, vederlo sul grande schermo messo in scena da Verbeek senza un briciolo di ironia, risulta in una delle esperienze cinematografiche più insostenibili del 2015. L'utilizzo di 'temi d'attualità' in maniera così pretestuosa, e persino irresponsabile, rende Full Contact esecrabile.
Ha serie chance d'essere incluso nel palmarès, invece, l'iraniano The Girl's House di Shahram Shah Hosseini. Se non certo per forme di cinema novatrici, sicuramente per il suo approccio di petto ad una sceneggiatura avvincente che parte da una posizione a latere, per poi immergersi in un dramma al femminile che batte la classica strada dell'impegno post-neorealista iraniano. Il fulcro drammaturgico lo propone la misteriosa morte di una giovane alla vigilia del suo matrimonio. Hosseini rivela la tragica verità sull'accaduto de-costruendo i percorsi dei personaggi coinvolti e finendo su un toccante sorriso che invoca il non ripetersi della tragedia che racconta.
Giusto una segnalazione en passant per un piccolo e curioso film indipendente giapponese visto nel concorso nazionale Japanese Cinema Splash, Areno-The Wilderness di Koshikawa Michio. Adattamento libero di Thérèse Raquin di Zola, Areno è un film di fantasmi e di slittamenti temporali, intriso di erotismo e malinconia. Indugia a tratti in un certo compiacimento tonale, ma è un esordio promettente per Koshikawa, altrimenti noto per la sua prolifica carriera di produttore indipendente.