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La politica degli autori: Jafar Panahi

Un regista che dà fastidio perché fa semplicemente il suo lavoro.
di Mauro Gervasini

In foto Jafar Panahi, regista di Taxi Teheran.
Jafar Panahi (65 anni) 11 luglio 1960, Mianeh (Iran) - Cancro. Regista del film Taxi Teheran.

mercoledì 26 agosto 2015 - Approfondimenti

Ci si illude qualche volta che scrivere di cinema, prima di tutto una passione, preservi dai conflitti, allontani dalla vita reale, con le sue drammaticità. Un'illusione, appunto. Come tutte le forme di espressione di un singolo o di un gruppo, anche il cinema sa essere politico, quindi strumento di interpretazione della realtà. A volte infastidisce solo perché riesce a raccontarla. Jafar Panahi, classe 1960, è un regista che dà fastidio perché fa semplicemente il suo lavoro. In un paese, l'Iran, che ha una cinematografia nobile e magnifica, ma i cui slanci verso la modernità sociale sono ancora a singhiozzo. Nel marzo 2010 Panahi viene arrestato per avere partecipato a proteste pacifiche contro il governo di Teheran, allora guidato da Ahmadinejad. Condannato a sei anni di carcere, commutati in arresti domiciliari, riceve la più pesante delle sanzioni: non potrà più scrivere, dirigere, produrre film. Per vent'anni. Essere costretti a non lavorare e a non potersi esprimere nei modi che ci sono propri: una pena inconcepibile e insopportabile per chiunque. Per Panahi lo strazio è doppio e travolge in pieno la comunità cinefila internazionale che non manca negli anni di far sentire la sua protesta.

Jafar Panahi è allievo di Abbas Kiarostami, di cui è stato aiuto e assistente e del quale ha elaborato luoghi (ad esempio l'abitacolo della macchina concepito come microcosmo dove molto, se non tutto, può accadere) e temi. In modo personale però, con coraggio, restando a stretto contatto con le storie che racconta (Kiarostami vive da anni tra Parigi e Tokyo, città che ultimamente l'ha come adottato). Ha vinto un sacco di premi: Il Pardo d'oro a Locarno con Lo specchio (1997); il Leone d'oro a Venezia con Il cerchio (Marco Müller e Alberto Barbera furono, in quegli anni, tra i maggiori promotori del cinema iraniano di cui Kiarostami, Panahi e la famiglia Makhmalbaf sono stati esponenti di punta), il premio della giuria del Certain regard a Cannes con Oro rosso (2003).

Fino all'Orso d'oro a Berlino di quest'anno a Taxi Teheran (in streaming su MYmovieslive giovedì 27 agosto alle 21.30, lo stesso giorno dell'uscita in sala), girato in clandestinità con una micro macchina da presa collocata sul cruscotto di un taxi guidato dallo stesso regista "sotto mentite spoglie". Dietro, entrano ed escono come normali clienti personaggi diversissimi per sesso, estrazione sociale, persino fedina penale. Dalle loro chiacchiere il ritratto di un paese, l'Iran, che gestisce in maniera contraddittoria i grandi cambiamenti, non senza dover fare i conti con il retaggio arcaico della propria cultura religiosa. Ma Panahi, nonostante la gravità della situazione (prima di tutto sua: peraltro è geniale che lui, il conducente, si dimostri autista tutt'altro che abile), sceglie per questo ultimo film sofferto e vitale la chiave dell'ironia, forse necessaria per poter anche solo pensare a un'opera-mondo così complessa realizzata con mezzi di fortuna. Un premio, quello della Berlinale, all'arte più resistente che si possa immaginare. Taxi Teheran è anche il primo film distribuito dalla neonata Cinema di Valerio De Paolis.

Anche rispetto ad altri autori iraniani della sua generazione, Panahi ha sempre avuto un'attenzione particolare per la questione femminile. A partire da Lo specchio, al centro delle sue storie ci sono una o più donne tenaci, in grado di risalire anche al contrario la corrente. Come la protagonista Mina, straordinaria bambina che avendo mancato l'appuntamento con la mamma fuori da scuola decide di tornare a casa da sola, pur non sapendo bene come fare. Per la prima volta, attraverso i suoi incontri di volta in volta divertenti o preoccupanti, si dipana la narrazione corale cara al regista fino all'ultimo film: l'affresco che partendo da uno sguardo arriva a lambirne tanti, l'immagine che riesce a cogliere accadimenti simultanei. Più programmatico, ma lo stesso incisivo, Il cerchio, con le sue otto donne costrette a fronteggiare colpe sociali inesistenti. Altrettanto da non perdere Offside (2006, ma distribuito solo nel 2011) dove alcune donne si travestono da uomini per poter andare a vedere una partita della nazionale di calcio.


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