Anno | 2011 |
Genere | Documentario |
Produzione | Austria |
Durata | 90 minuti |
Regia di | Nikolaus Geyrhalter |
MYmonetro | 2,75 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
|
Ultimo aggiornamento lunedì 29 luglio 2013
Un viaggio intrapreso dal regista Nikolaus Geyrhalter nell'Europa che lavora di notte.
CONSIGLIATO SÌ
|
L'apprezzato documentarista austriaco Nikolaus Geyrhalter compone un quadro di immagini che raccontano l'Europa pre-crisi economica, quella dei primi anni del ventunesimo secolo, con la sua prosperità fondata sull'ossessione per la tecnologia e la sicurezza. 170 ore di materiale - girato in un periodo di quattordici mesi in dieci diverse nazioni - ridotto a 90 minuti di sequenze apparentemente slegate, che vanno dall'Oktoberfest bavarese a un incontro del Papa con i missionari in piazza San Pietro, dalle attività di una fabbrica aeronautica alle riprese di un film porno, dai lavori del Parlamento Europeo a quelli di un centro telefonico di prevenzione del suicidio. Immagini unite dal filo conduttore della ripresa notturna, emblema di un'Europa efficiente e pragmatica che non smette mai di funzionare.
Una telecamera di sorveglianza arroccata su un campo verde. È la prima silenziosa e solenne immagine di un documentario che mostra senza spiegare. Questa insistita inquadratura è solo il primo tassello di un puzzle di difficile composizione e ancor più ardua interpretazione. Del resto, quello di Geyrhalter è un cinema estremamente concettuale, che respinge la funzione auto-evidente dell'immagine filmica. Un cinema documentario che parla alle menti più che ai cuori, e infatti non adopera mai né il commento sonoro né quello esplicativo di una voce fuori campo che illustri le inquadrature, né tantomeno le abusate interviste a persone coinvolte o a esperti. Eppure, già dalla prima scena, il regista fornisce implicite indicazioni utili all'analisi. In primo luogo, il contrasto stridente tra l'elemento tecnologico rappresentato dalla telecamera di sorveglianza e il contesto naturale in cui è inserita.
Nelle immagini successive, di cui si compone questo complesso mosaico, la tecnologia prenderà il sopravvento, a simboleggiare un vecchio continente fagocitato dall'ossessione per l'innovazione e il controllo. È evidente l'insistenza del regista su telecamere di sorveglianza, monitor, attività di pattuglie che vigilano alle frontiere, alti muri di confine (come quello antimmigrazione tra il Marocco e le città autonome spagnole di Ceuta e Melilla) e gruppi di lavoro chiamati, in diversi paesi europei, a respingere con fredda e cortese fermezza gli immigrati irregolari. In un mondo globalizzato - è la tesi del regista - la ricca Europa appare come un paradiso appetibile da molti. La privilegiata vita europea, con la sua efficiente rete di controllo e assistenza sociale, si fonda, però, sull'esclusività: le risorse disponibili sono limitate, quindi anche il godimento dei benefici deve essere circoscritto. Ecco perché il paradiso europeo è respingente, delimitato da una recinzione elettrica insormontabile.
Come ci suggerisce il titolo del documentario, quella scrutata da Geyrhalter è un'Europa che vuole mostrarsi congegno perfetto, ma che a fatica comprime i germi della decadenza di una civiltà fondata sul peso della cultura e delle tradizioni nazionali, ormai annullate in un indistinto pot-pourri alla ricerca di una nuova identità. "Abendland" è un termine tedesco che si traduce letteralmente con l'espressione "notte-terra", spesso usata per indicare l'Occidente e, per associazione, "il tramonto dell'Occidente". Un territorio che a volte sembra sul punto di esalare il suo ultimo respiro, come suggeriscono le immagini di morte - la cremazione, i malati in ospedale - che contrastano con quelle legate alla nascita. Una nascita che sembra aver perso l'elemento naturale, mediata com'è dalla tecnologia incubatrice.
Una visione pessimistica, quella del regista, suffragata da immagini che hanno un profondo impatto di insieme, ma che spesso faticano a coabitare, proprio come i mille volti dell'Europa multiculturale. Resta, allora, l'impressione di un'ambizione autoriale schiacciata da un'eccessiva cerebralità, che ripudia il valore di un cinema che si sforzi di parlare a tutti.