Drammatico,
durata 144 min.
- USA, Francia, Messico 2006.
uscita venerdì 27ottobre 2006.
MYMONETROBabel
valutazione media:
3,04
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Nel silenzio del deserto marocchino due ragazzini armati di Winchester esplodono dei colpi, ma i proiettili vanno più lontano di quanto loro avrebbero mai potuto immaginare, ferendo Susan (Cate Blanchett), una donna americana in viaggio col marito Richard (Brad Pitt) su un pullman. Questo evento drammatico ha ripercussioni su quattro diversi gruppi di persone che vivono in altrettanti continenti: un'adolescente giapponese sordomuta e suo padre, una tata messicana perduta con i due bambini della coppia ferita ed il nipote Santiago (Gael Garcia Bernal), e la famiglia berbera dei due ragazzini armati. Le loro vite, i loro destini dipenderanno da un gesto del passato: il dono di un fucile.
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Nel silenzio del deserto marocchino due ragazzini armati di Winchester esplodono dei colpi, ma i proiettili vanno più lontano di quanto loro avrebbero mai potuto immaginare, ferendo Susan (Cate Blanchett), una donna americana in viaggio col marito Richard (Brad Pitt) su un pullman. Questo evento drammatico ha ripercussioni su quattro diversi gruppi di persone che vivono in altrettanti continenti: un'adolescente giapponese sordomuta e suo padre, una tata messicana perduta con i due bambini della coppia ferita ed il nipote Santiago (Gael Garcia Bernal), e la famiglia berbera dei due ragazzini armati. Le loro vite, i loro destini dipenderanno da un gesto del passato: il dono di un fucile. Perché ogni azione produce un effetto...Filosofica, drammatica e cinematograficamente parlando, Babel è una straordinaria produzione che porta con se un enorme impatto emozionale ed intellettuale. Diretta da Alejandro González Iñárritu, Babel completa la trilogia iniziata con "Amores perros" (2000) e "21 Grammi" (2003). Anche se non gioca molto con il tempo come nei precedenti film, la struttura è simile. Il titolo ci fa intuire che il tema centrale è quello degli equivoci e della mancanza di comunicazione; difatti si parla in arabo, giapponese, spagnolo e inglese ed è stato girato in Marocco, a Tokyo, a Los Angeles e a Tijuana.
Mescolando le diverse storie, le frustrazioni, gli equivoci, le decisioni, la cattiva sorte e i terribili risultati, la trama trova un comune denominatore e ci porta ad un inevitabile risultato. Le intenzioni dei protagonisti forse non sono negative, ma le conseguenze sono tragiche. Il regista pone l’accento sulle complicate relazioni politiche e sociali tra cittadini del primo mondo e paesi sottosviluppati; anche se vivono in diverse parti del mondo sono collegati tra di loro.
La storia comincia nel deserto africano dove un padre di famiglia acquista un fucile per i figli affinché proteggano le capre dagli sciacalli. I due ragazzi decidono di provare il fucile e sparano su un autobus di turisti, ma la portata dello sparo è maggiore di quello che pensavano, e feriscono Susan (Cate Blanchett) moglie di Richard (Brad Pitt), una coppia di turisti in vacanza e in crisi dopo la morte di un figlio, ma le autorità sono sicure si tratti di un attentato terroristico. Nel frattempo, a migliaia di chilometri, il padrone del fucile che ferisce la Blanchett, un vedovo giapponese, non riesce a comunicare con sua figlia sordomuta che vive una crisi personale dopo il suicidio della madre; incapace di esprimere i suoi sentimenti con parole, ricorre al corpo e alla sua nascente sessualità. Nel frattempo una badante messicana porta due bambini americani in Messico per assistere al matrimonio del figlio. Il nipote (Gael Garcia Bernal) accompagna la donna in macchina, ma una volta arrivato al confine, per sfuggire al controllo della polizia, oltrepassa la frontiera e fugge lasciando la badante con i bambini nel bel mezzo del deserto. Questa storia riassume la situazione di migliaia di persone che cercano di attraversare la frontiera americana, la frustrazione degli immigranti in paese straniero e l’incapacità di esprimere il desiderio di avere una vita migliore.
La storia dei bambini marocchini parla più della disgregazione di una famiglia musulmana spirituale, che di un bambino perseguitato dalla polizia. Per il padre è forse più importante che il ragazzo spii sua sorella quando si spoglia, del fatto che abbia sparato contro un autobus. Ogni storia coinvolge padre e figli, tragedia e trascendenza, le cose personali e le situazioni globali, l’irrefrenabile desiderio di comunicazione.
In un solo istante, le vite di quattro gruppi di estranei in tre continenti collidono, si vedono intrappolate nella crescente onda di incidenti le cui proporzioni crescono senza poter essere controllate. Nessuno di loro arriverà a conoscersi, nonostante l’inattesa connessione che li unisce, rimarranno isolati perché incapaci di comunicare con le persone che li circondano. Le autentiche frontiere, più che linee fisiche esteriori, sono dentro di noi, sono le barriere del mondo delle idee. Quello che ci rende felici come esseri umani può essere diverso, ma quello che ci rende infelici e vulnerabili, oltre la razza, la cultura e la lingua è uguale per tutti. E’ un film sulle cose che uniscono non su quelle che separano, una sinfonia corale sulla mancanza di comunicazione, con diverse direttrici che si intersecano, si sfiorano, senza mai però sovrapporsi, muoversi o coincidere.
Il nucleo centrale è un tema del XXI secolo. Il film studia l’incomoda contraddizione che rappresenta vivere in un mondo dove la comunicazione, grazie alle ultime tecnologie, è semplice nell’ambito globale, ma i suoi abitanti si sentono lontani tra di loro, e isolati da barriere e malintesi superficiali.
Autore ormai noto anche al grande pubblico dopo “Amores Perros” e “21 Grammi”, il regista messicano si riconferma attento e partecipe narratore della casualità e del destino, nonché della fondamentale incapacità di comunicare degli esseri umani. Pur eccessivo, il suo non è però un discorso di disperazione, perché qua e là qualche luce, qualche redenzione si accende in un mondo perlopiù percorso dalla sofferenza e da colpi di coda di un Caso il più delle volte nemico. Altro filo rosso che percorre il suo cinema, oltre al dolore, è quello della violenza con cui spesso Iñárritu lo rappresenta. Al servizio di questi contenuti, anche la scelta della struttura è simile ma non uguale alle opere precedenti. Siamo di nuovo, come in “21 Grammi”, a un’opera circolare, nella quale i protagonisti sono collegati tra loro senza saperlo, ma questa volta il cerchio si allarga fino a coprire paesi diversi e tra loro lontanissimi. I personaggi che compongono la trama non s’incontreranno mai, ma ciascuno vive situazioni da “frontiera”, perché c’è sempre un confine che divide non solo i popoli tra loro ma anche spesso separa i padri dai figli, il fratello dal fratello, l’uomo dalla donna. Quindi non c’è soltanto la confusione delle lingue cui si allude nella scelta biblica del titolo, che pure ha grande importanza: alle lingue lontane e spesso sconosciute si aggiunge il dramma della solitudine di chi non riesce più a dialogare anche nella stessa terra in cui è nato. Così incontriamo persone che a diverse latitudini hanno perso la loro identità o perché troppo ricche o perché troppo povere o perché sole o perché, in due, non riescono più a parlarsi.
Inoltre i luoghi prescelti non a caso esaltano con le loro caratteristiche le emozioni di chi guarda, vedi la tecnologia dell’Oriente e l’aridità sconsolata del deserto, per cui ci si sente vicinissimi alla protagonista giapponese o al pastorello miserrimo del sud del Marocco o alla frustrazione di chi, come i messicani, è discriminato perché emigra clandestinamente in terra d’altri. Lettura sociologica, politica, psicologica s’incrociano in questa struttura condotta con maestria, a volte troppo scoperta e non più sperimentale.
E’ qui forse il limite vero del film, insieme a un eccesso di esasperazione retorica del dolore, tipica delle culture latinoamericane. Ciononostante non ci si può sottrarre al fascino delle vicende che si precisano poco a poco ma si intrecciano solo alla fine. Il cast d’attori è in empatia con il regista, dalla raffinata e vibrante Cate Blanchette a un Brad Pitt più maturo del solito, all’umanità mortificata e dolente di Rinko Kikuchi fino ai due pastorelli marocchini scelti via altoparlante con un annuncio dai minareti della moschea. Dei particolari della trama non è importante parlare; il crescere della narrazione sullo schermo va seguito in diretta senza mediazioni, come si fa con le storie d cui è intessuto un grande romanzo. [-]
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Nessun film mi ha fatto immedesimare nelle situazioni come questo. Il migliore Brad Pitt, ma sontuose le recitazioni del bambino americano e della sua tata. E se tutti hanno recitato al meglio delle loro possibilità è segno che il regista ha lavorato in modo magistrale. A qualcuno può apparire lento, ma se fosse durato 5 minuti meno si sarebbe persa qualche emozione, qualche sensazione. Tutto perfetto, ma per coglierne appieno le qualità bisogna amare il vero cinema e zittire la suoneria del proprio cellulare.
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Marocco. Un pastore acquista un fucile per tenere lontani gli sciacalli dal suo gregge, affidandolo ai suoi due giovanissimi figli i quali, per testare la validità dell’arma, si apprestano a far fuoco da un monte dell’Atlante ai primi bersagli umani che si trovano sotto i loro occhi. Una donna americana (Cate Blanchett) che si trova su un pullman di turisti assieme al marito (Brad Pitt), rimane gravemente ferita.
Stati Uniti. Una badante messicana (Adriana Barraza) che ha sotto la propria custodia due bambini, decide irresponsabilmente di portarli con sé in Messico per prendere parte al matrimonio del figlio con la promessa da parte di suo nipote (Gael Garcìa Bernal) di riportarli negli USA una volta celebrato l’evento.
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Marocco. Un pastore acquista un fucile per tenere lontani gli sciacalli dal suo gregge, affidandolo ai suoi due giovanissimi figli i quali, per testare la validità dell’arma, si apprestano a far fuoco da un monte dell’Atlante ai primi bersagli umani che si trovano sotto i loro occhi. Una donna americana (Cate Blanchett) che si trova su un pullman di turisti assieme al marito (Brad Pitt), rimane gravemente ferita.
Stati Uniti. Una badante messicana (Adriana Barraza) che ha sotto la propria custodia due bambini, decide irresponsabilmente di portarli con sé in Messico per prendere parte al matrimonio del figlio con la promessa da parte di suo nipote (Gael Garcìa Bernal) di riportarli negli USA una volta celebrato l’evento.
Giappone. Un appassionato di caccia (Koji Yakusho) rimasto recentemente vedovo della moglie suicida ha una figlia adolescente affetta da sordomutismo (Rinko Kikuchi): la si vede frequentare oltre alle consuete amiche della pallavolo, un gruppetto di ragazzi cercando di attirarne l’attenzione e l’interesse, dei coetanei così come di uomini più maturi, con metodi più che disinibiti.
Un film, tre trame diverse, pronte a sposarsi l’un l’altra una volta che il puzzle del drammaturgo Guillermo Arriaga sarà giunto al termine. Se lo schema di narrazione e di montaggio non cambia, peculiarità dello sceneggiatore di Inarritu, rispetto ai due precedenti episodi della Trilogia della Morte, cambia invece la veduta di coinvolgimento, che si estende stavolta a tre nazioni diverse, nel film sono parlate 4 lingue diverse + 1 (il linguaggio dei segni), quindi una visione che intacca l’intero mondo globalizzato con una critica sferzante ai sensi dell’incomunicabilità umana. Babel, (titolo dai chiari rimandi biblici) pur riproponendo lo stesso schema ad intreccio dei capitoli precedenti, i protagonisti vengono posti sullo stesso piano, eguagliati non dal proprio ceto sociale ma dalla stessa inadeguatezza e dallo stesso senso di smarrimento davanti alla morte, una ed universale. Tutti in questa pellicola piena di lacrime, hanno avuto a che fare con la morte. Resta il film che personalmente mi ha colpito meno della trilogia per la facilità con cui scade al melodramma gratuito, per l’artifizio di dover far combaciare tutti gli eventi con marchingegni di sceneggiatura quasi inverosimili, l’ho trovato anche un po’ carico di retorica piagnona hollywoodiana, fattore che accomuna generalmente film abbastanza ruffiani e di facile commercio, cosa che Babel non è in quanto frutto della mente di due autori veri ma che sembra strizzare l’occhio a quella filosofia lì. Non ho gradito alcune soluzioni di sceneggiatura, il personaggio di Gael G. Bernàl che parte in quarta dopo che un poliziotto gli ha detto di accostare, peggiorando solo la propria situazione e quella di chi aveva in auto con sè. Poi poliziotti che sparano con una facilità tanto sdegnosa contro la famiglia di marocchini senza la certezza che si trattassero di veri terroristi mi ha lasciato un po’ interdetto, così come la violenza fisica della polizia in generale manifestata durante tutta la pellicola. Presumo avessero voluto indirizzare una forma di critica verso le forze dell’ordine ma non è questo il modo. Tra le note positive oltre alla splendida fotografia che in alcune scene riesce a farci respirare il caldo soffocante del Marocco e l’alienazione desolante di Tokyo, anche le interpretazioni di tutto il cast. Certi dialoghi davvero ben scritti e fanno ben capire di quanto siamo lontani anche dagli affetti che ci sono più vicini.
La ragazza di Tokyo con il suo ricercatissimo bisogno di amore, di contatto fino a spingersi ad assumere tali comportamenti incarna tutto lo spirito e il messaggio di questo film. Nella scena della discoteca giapponese regia e fotografia danno quanto di meglio poteva dare, facendoci capire di come la ragazza sordomuta sia immersa in una dimensione a lei del tutto estranea, tutto attorno a lei si muove e si dimena mentre lei, sublimazione della solitudine, se ne sta al centro ad osservare i suoi amici finchè comprende che è arrivato il momento di dileguarsi. Questa scena insieme alla carrellata all’indietro finale che inquadra Tokyo di notte sono i punti di più alto valore artistico/espressivo di questo film.
La regia di Inarritu e la scrittura di Arriaga avevano in maniera eccellente disegnato i tratti di una metropoli come Città del Messico con il suo caos e la sua stratificazione sociale in Amores Perros, in cui tra l’altro si era celebrata la violenza degli scontri cinofili, in una scena pazzesca di Babel Bernàl stacca il collo ad un pollo davanti ad un gruppo di bambini, per gioco.
Innegabile dar merito al regista di Birdman per la capacità che attualmente in pochissimi hanno, di catapultare lo spettatore in realtà così grandi e fuori dalla portata di un’ immaginazione provinciale, realtà in cui si intrecciano e spesso si scontrano uomini di etnie e culture diverse. Successo che avrebbe egregiamente replicato con la Barcellona di Biutiful.
Voto 7.5 [-]
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Cosa potrà mai accomunare una coppia californiana in viaggio reduce dalla prematura morte del figlio, due ragazzi marocchini intenti a maneggiare un fucile per acquisire una buona mira, due bambini che attraversano il Messico sotto la responsabilità della tata e un'adolescente giapponese sordomuta? Lo spettatore, di fronte a quattro storie che si alternano nel corso della pellicola, percorre gradualmente un cerchio e partecipa ad un gioco di causa-effetto improbabile ma molto verosimile, che ci aiuta a ricordare, come direbbe Einstein, che l'unica razza di questo mondo è quella umana e non possiamo dare per scontato che la lontananza geografica o culturale equivalga al lavamento delle mani.
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Cosa potrà mai accomunare una coppia californiana in viaggio reduce dalla prematura morte del figlio, due ragazzi marocchini intenti a maneggiare un fucile per acquisire una buona mira, due bambini che attraversano il Messico sotto la responsabilità della tata e un'adolescente giapponese sordomuta? Lo spettatore, di fronte a quattro storie che si alternano nel corso della pellicola, percorre gradualmente un cerchio e partecipa ad un gioco di causa-effetto improbabile ma molto verosimile, che ci aiuta a ricordare, come direbbe Einstein, che l'unica razza di questo mondo è quella umana e non possiamo dare per scontato che la lontananza geografica o culturale equivalga al lavamento delle mani. La sceneggiatura di Guillermo Arriaga non si riduce al solito significato allegorico/filosofico che innalza le buone critiche, ma, grazie alla regia di Alejandro Gonzalez Inarritu, ci offre tra l'altro un panorama di ben 4 realtà e quelli che potrebbero essere i loro problemi, che siano sociali o politici: troviamo infatti una ragazzina di Tokyo che cadrà progressivamente in un vortice apparentemente senza uscita di depresione e di totale mancanza di autostima, causato dal suo handicap che gli impone di comunicare attraverso gesti e portarsi dietro un taccuino su cui all'occorrenza scrive le sue domande e le sue risposte e che la costringe soprattutto a non sentire la musica della discoteca e ad essere scansata dai coetanei dell'altro sesso. Poi abbiamo i due ragazzi che pagheranno amaramente il loro "gioco" da cecchini, dai quali però trasparirà il tipico pregiudizio occidentale nei confronti del terzo mondo. La coppia americana invece affronterà un avvenimento che metterà da parte la loro crisi e che nel finale espliciterà l'opposizione tra l'esito felice di questi ultimi e quello per niente allegro dei ragazzini: finali che vorrebbero ripetere il topos del "felici e "contenti" occidentale e del purtoppo brutto termine di molte vicende del terzo mondo, ma che in realtà lo criticano pesantemente con l'evidenza. Infine abbiamo due bambini che, anche se inconsapevolmente, faranno visita all'altra pesante realtà di quell'altrettanto pesante divisione tra Usa e Messico data concretamente dal muro costruito al confine. Inarritu, divenuto celebre tra il grande pubblico soprattutto per il suo capolavoro "Birdman" (Miglior film agli oscar) e per "Revenant", grazie al quale Di Caprio ha vinto il suo primo oscar come miglior attore, costruisce un intreccio congegnato, oserei dire, alla perfezione, ma in particolare insolito e molto interessante, apparentemente lento, ma in realtà capace di raccontare di tutto e di più, e aperto a molteplici interpretazioni. Nel cast troviamo Brad Pitt e Cate Blanchett, che interpretano la coppia, e anche la musa di Nicolas Winding Refn, Elle Fanning, e il messicano Michael Pena, nel suo solito ruolo di agente di polizia. Da segnalare la sublime colonna sonora di Gustavo Santaolalla, grazie al quale vinse l'Oscar e che invade soprattutto il finale, impreziosendolo più che mai. "Babel" è dunque una pellicola anomala, anticonvenzionale e non adatta a tutti (sesso e violenza non mancano), che incolla allo schermo e offre uno sguardo drammatico e malinconico della realtà.[-]
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Più che un puzzle, come da qualcuno descritto, un quadro. Con quattro angoli che convergono in unico centro: l'incomunicabilità. Babel è un film sulla distanza (un padre che non c'è mai, un altro che scappa dopo la morte di un figlio, bambini lasciati crescere da soli nel deserto); la distanza dei genitori dai figli, che sfocia (quasi) inesorabilmente nella morte. Manierismo e autocompiacimento sono limiti che accompagnano spesso il cinema di Inarritu, ma se al giorno d'oggi c'è un regista che può specchiarsi nelle sue opere, è proprio lui. I suoi film tendono ad assomigliarsi un po' troppo, eppure, anche Babel, regala sequenze ed immagini impossibili da scordare. Impossibili da confondere.
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Più che un puzzle, come da qualcuno descritto, un quadro. Con quattro angoli che convergono in unico centro: l'incomunicabilità. Babel è un film sulla distanza (un padre che non c'è mai, un altro che scappa dopo la morte di un figlio, bambini lasciati crescere da soli nel deserto); la distanza dei genitori dai figli, che sfocia (quasi) inesorabilmente nella morte. Manierismo e autocompiacimento sono limiti che accompagnano spesso il cinema di Inarritu, ma se al giorno d'oggi c'è un regista che può specchiarsi nelle sue opere, è proprio lui. I suoi film tendono ad assomigliarsi un po' troppo, eppure, anche Babel, regala sequenze ed immagini impossibili da scordare. Impossibili da confondere. Delle quattre storie raccontate col solito gioco ad incastro (Messico, Giappone e la doppia in Marocco), paradossalmente la più debole è quella che ha per protagonisti Pitt e la Blanchett, peraltro tirati e convincenti. Centratissime le altre tre: i fratellini che giocano col fucile, l'adolescente sordomuta e choccata dal suicidio della madre e la sciagurata baby sitter messicana, sono tutti potenziali pericoli. Per sè e per gli altri. Ma nessuno di loro si è armato da solo. Ci ha pensato qualcun altro. Qualcuno che avrebbe dovuto essere più vicino.
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Ognuno dei personaggi dei film di Inarritu ha perso qualcosa. Si può perdere il figlio, il proprio Paese, la moglie o la felicità conquistata dopo anni di sacrifici. Si può perdere il senso della vita, la speranza, ogni fiducia in se stessi e negli altri. Tutto in un lampo. E forse non lo si potrà recuperare mai più. Il regista messicano, che scava nei sentimenti e li mostra senza reticenze, rappresenta anche in Babel l'umanità sfilacciata, globalizzata e disperata che si ritrova nelle altre sue opere. Ottima la scrittura di Arriga, notevole la regia, sempre azzeccata la scelta del commento musicale. Credibili gli attori, a partire da un Brad Pitt sempre più maturo. E così risulta impossibile staccarsi dalla trama, scomposta e ricomposta grazie ad un abile e sorprendente doppiaggio.
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Ognuno dei personaggi dei film di Inarritu ha perso qualcosa. Si può perdere il figlio, il proprio Paese, la moglie o la felicità conquistata dopo anni di sacrifici. Si può perdere il senso della vita, la speranza, ogni fiducia in se stessi e negli altri. Tutto in un lampo. E forse non lo si potrà recuperare mai più. Il regista messicano, che scava nei sentimenti e li mostra senza reticenze, rappresenta anche in Babel l'umanità sfilacciata, globalizzata e disperata che si ritrova nelle altre sue opere. Ottima la scrittura di Arriga, notevole la regia, sempre azzeccata la scelta del commento musicale. Credibili gli attori, a partire da un Brad Pitt sempre più maturo. E così risulta impossibile staccarsi dalla trama, scomposta e ricomposta grazie ad un abile e sorprendente doppiaggio. Il caso la fa da padrone ma è sempre il prodotto dell'incontro, anche inconsapevole, con altre esistenze, ognuna vicina ma mai saldata alle altre come possono esserlo tanti granelli di sabbia. Le frontiere - intese come limite esterno - spariscono (le vicende narrate dal film avvengono in quattro Paesi diversi e lontanissimi fra loro)ma ricompaiono fra gli uomini, fra le razze, fra i diversi. Nel film ci sono solo due momenti in cui il senso dell'appartenenze prevale sull'incomunicabilità, sulla diffidenza e sullo scherno: quando una giovane giapponese assume droga assieme agli amici e trascorre la serata in discoteca e quando il protagonista americano (Pitt)trova la solidarietà della popolazione di un misero e sperduto villaggio del Marocco, dopo che gli altri turisti, ricchi e spaventati, l'hanno lasciato solo con la moglie ferita gravemente. Da non perdere.
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Ammetto di non aver mai amato Inarritu, a parte Amores Perros, del 2000, per me il suo film migliore. Ho rivisto ieri in Tv dopo 8 anni questa pellicola, perchè ad un premio oscar (Birdman - che ho lasciato a metà proiezione) bisogna sempre dare una seconda chance. E me ne pento. Due ore e passa (più di 3 in TV) sprecate.
Ho fatto fatica ad arrivare a metà e mi sono imposto di giungere alla fine, ma che fatica. Mi tenevo sveglio a sberle.
Proprio non ne capisco il senso. Va bene l'incomunicabilità, che permea il tutto e di cui è simbolo il titolo, vanno bene i salti spaziali e temporali, ma era proprio necessario trovare improbabili collegamenti tra Marocco, Messico, USA e Giappone? Non era meglio forse fare dei semplici episodi? Il film non ne guadagna, anzi secondo me ne perde.
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Ammetto di non aver mai amato Inarritu, a parte Amores Perros, del 2000, per me il suo film migliore. Ho rivisto ieri in Tv dopo 8 anni questa pellicola, perchè ad un premio oscar (Birdman - che ho lasciato a metà proiezione) bisogna sempre dare una seconda chance. E me ne pento. Due ore e passa (più di 3 in TV) sprecate.
Ho fatto fatica ad arrivare a metà e mi sono imposto di giungere alla fine, ma che fatica. Mi tenevo sveglio a sberle.
Proprio non ne capisco il senso. Va bene l'incomunicabilità, che permea il tutto e di cui è simbolo il titolo, vanno bene i salti spaziali e temporali, ma era proprio necessario trovare improbabili collegamenti tra Marocco, Messico, USA e Giappone? Non era meglio forse fare dei semplici episodi? Il film non ne guadagna, anzi secondo me ne perde. Belle le scene del matrimonio e alcuni paesaggi marocchini e nel complesso ottima la fotografia. Sottotono per me gli attori e stirate a non finire le scene patetiche degli occupanti del bus nell'attesa che la Blanchett si riprenda. Anche Brad Pitt, che salva comunque un pò la baracca, è vittima per me del contesto.
Lunghissime poi le scene descrittivo-paesaggistiche, incombente e ridondante la musica.
Forse la seconda stella è un regalo, ma di certo non lo rivedrò mai più.
Film veramente patetico, in ogni senso.
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Quattro storie si intrecciano: in Marocco due fratelli (Ait El Caid e Tarchani) si divertono a sparare con un fucile e più o meno accidentalmente colpiscono una turista (Blanchett). Una coppia in crisi, marito e moglie (Pitt e Blanchett), fa un viaggio in Marocco, lei viene ferita da una fucilata e rischia di morire: la tragedia li riavvicinerà. Negli USA i figli della coppia (Fanning e Gamble) sono affidati alla governante di casa (Barraza) che li porta al matrimonio del figlio, al ritorno di notte hanno un guaio con la frontiera messicana e lei perde l’affidamento dei bimbi che ha cresciuto per tutta la vita. In Giappone una sordomuta (Kikuchi) con una crisi sessuale riallaccia i rapporti con il padre (Yakusho), che aveva regalato il fucile ad un uomo marocchino che a sua volta lo aveva venduto alla famiglia dei due ragazzini.
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Quattro storie si intrecciano: in Marocco due fratelli (Ait El Caid e Tarchani) si divertono a sparare con un fucile e più o meno accidentalmente colpiscono una turista (Blanchett). Una coppia in crisi, marito e moglie (Pitt e Blanchett), fa un viaggio in Marocco, lei viene ferita da una fucilata e rischia di morire: la tragedia li riavvicinerà. Negli USA i figli della coppia (Fanning e Gamble) sono affidati alla governante di casa (Barraza) che li porta al matrimonio del figlio, al ritorno di notte hanno un guaio con la frontiera messicana e lei perde l’affidamento dei bimbi che ha cresciuto per tutta la vita. In Giappone una sordomuta (Kikuchi) con una crisi sessuale riallaccia i rapporti con il padre (Yakusho), che aveva regalato il fucile ad un uomo marocchino che a sua volta lo aveva venduto alla famiglia dei due ragazzini. Scritto da Guillermo Arriaga, come già i precedenti Amores Perros e 21 grammi, è l’ultimo capitolo che chiude la Trilogia della morte di Iñàrritu, che più rispetto ai film precedenti si dimostra attratto dalla casualità del fato e dall’incrocio di eventi. È una storia bellissima, perfetta nel suo gioco di incastri, ed estremamente drammatica: solo due dei quattro episodi si chiudono bene, quello di Brad Pitt (la Blanchett si salva e si presume che i due vivranno felici con i figli) e quello giapponese (con la Kikuchi che, nonostante si apprenda una terribile verità, riesce a riallacciare il rapporto con il padre e a capirsi): le culture occidentalizzate sopravvivono, quelle deboli (Africa e Messico) vengono distrutte. È un film dolente e doloroso e, se si dovesse dare un titolo ai quattro splendidi episodi sarebbero: Il dolore (Pitt…), La violenza (i bambini marocchini), Il sesso (Giappone) e Il distacco. Notevole successo internazionale e sette nomination agli Oscar: miglior film, regia, attrici non protagoniste (Barraza e Kikuchi), sceneggiatura originale, montaggio e colonna sonora (di Gustavo Santoalla), l’unica poi portata a casa nell’anno di The Departed. Golden Globe come miglior film drammatico e BAFTA alle musiche. Premio per la regia a Cannes. Attori eccezionali. [-]
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Questo film mi ha riportato alla mente un disco di una band brasiliana -CHAOS A.D. dei Sepultura- semplicemente per la caotica esistenza del genere umano in esso rappresentato. Il controllo delle vite che sfugge a causa di eventi imprevisti e imprevedibili, confuse e deliberate azioni criminali, attuate da persone al tempo stesso inconsapevoli, incomprensibili ed egoiste. BABEL ha la forza dolente di un racconto noir, l'asciutta freddezza di uno spietato romanziere tanto dolce quanto disperato da far vivere emozioni di un profondo senso di pietà umana, tradotta in squarci di autentica poesia narrativa visiva. Quattro storie di vita incrociate in altrettanti lontani angoli di mondo: San Diego (USA - CAL); Tijuana (MEX); Marocco; Tokyo.
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Questo film mi ha riportato alla mente un disco di una band brasiliana -CHAOS A.D. dei Sepultura- semplicemente per la caotica esistenza del genere umano in esso rappresentato. Il controllo delle vite che sfugge a causa di eventi imprevisti e imprevedibili, confuse e deliberate azioni criminali, attuate da persone al tempo stesso inconsapevoli, incomprensibili ed egoiste. BABEL ha la forza dolente di un racconto noir, l'asciutta freddezza di uno spietato romanziere tanto dolce quanto disperato da far vivere emozioni di un profondo senso di pietà umana, tradotta in squarci di autentica poesia narrativa visiva. Quattro storie di vita incrociate in altrettanti lontani angoli di mondo: San Diego (USA - CAL); Tijuana (MEX); Marocco; Tokyo. Quello che ne esce è un film le cui scene sembrano cadute di mano allo scenggiatore e un ignorante di passaggio le abbia rimesse nella bobina come gli pareva con tempi dilatati, scene rallentate, discorsi all'apparenza incoerenti ma zeppi del significato sulla nostra presenza in vita, solo di passaggio in una strana epoca di eventi mondiali e personali, in attesa che il treno dell'Ultimo Grande Viaggio faccia sosta alla nostra stazione. Nientedimeno, è un film sulla sofferenza, sul male di vivere dei nostri giorni; lasciamo troppo spazio all'odio offuscato togliendo la parte del protagonista alla nitidezza della ragione, i cui lumi sono resi ciechi dalla presuntuosa ricerca di un colpevole cui mettere al collo il cappio delle nostre paure, angosce, disgrazie. Il rifiuto vissuto dovuto ad incomprensioni e ignoranza fa da cornice alle urla di una consapevolezza che avanza inesorabile, che non lascia più spazio ai sogni; resta solo il dolore per la scomparsa prematura di chi amiamo e l'angoscia di non poter riuscire a perdonare chi suo malgrado è restato nel mondo dei vivi. Il messaggio finale potrebbe essere che questo eterno ciclo della vita, l'inizio il mezzo e la fine dell'essere umano, questa incomprensibile danza nel teatro delle nostre esistenze continuerà anche senza di noi, che lo vogliamo oppure no. Da lontano il nostro mondo è uno spettacolo meraviglioso, ma l'ignoranza della nascita e della morte ci rende pazzi. Non possiamo scegliere, non possiamo tornare alla terra su cui siamo stati concepiti, non ci è dato capire; possiamo però trattare con più rispetto la materia di cui siamo fatti. Forse allora, e solo allora, capiremo il senso di tutto il Caos nell'Anno del Signore.
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ci sono elementi del film che ancora non mi sono chiari.
spero mi aiuterete a capire il perchè di tale e tanta sofferenza, tutta insieme!
La trattazione della globalizzazione è molto interessante(forse la vera novità apportata dal film), personalmente non ravvedo il tema dell'incomunicabilità, anzi il contrario (la coppia in crisi in Marocco aveva un signor motivo per essere in crisi (la morte bianca del loro figlio neonato) e stavano veramente cercando una soluzione, infatti sono andati fino in Marocco!!; la governante arrestata dalla polizia statunitense era effettivamnete una clandestina. Non aveva il permesso di soggiorno e i poliziotti l'hanno trattata con correttezza; insomma non credo che si possa parlare di incomunicabilità di fronte alla grave sofferenza, in tali casi la difficoltà a comunicare è normale, fisiologica.
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ci sono elementi del film che ancora non mi sono chiari.
spero mi aiuterete a capire il perchè di tale e tanta sofferenza, tutta insieme!
La trattazione della globalizzazione è molto interessante(forse la vera novità apportata dal film), personalmente non ravvedo il tema dell'incomunicabilità, anzi il contrario (la coppia in crisi in Marocco aveva un signor motivo per essere in crisi (la morte bianca del loro figlio neonato) e stavano veramente cercando una soluzione, infatti sono andati fino in Marocco!!; la governante arrestata dalla polizia statunitense era effettivamnete una clandestina. Non aveva il permesso di soggiorno e i poliziotti l'hanno trattata con correttezza; insomma non credo che si possa parlare di incomunicabilità di fronte alla grave sofferenza, in tali casi la difficoltà a comunicare è normale, fisiologica. Se vogliamo parlare di incomunicabilità pensiamo a quella di America Beauty.
come molti scrivono, il film è confezionato in maniera impeccabile, ma quell'eccesso di tragedia non rieco a comprenderlo. No so dare davvero che giudizio finale: non so se catalogarlo tra i buoni film o i discreti prorio perchè non riesco a interpretare il messaggio proveniente da tutta quella quantità di sofferenza e tragedia.
Che ci voglia dire che la globalizzazione implica la sofferenza dell'uomo? sarebbe banale e poi non la condividerei.
Che ci voglia dire che regalare un'arma può portare solo sofferenza e tragedia? se così fosse troverei la sceneggiatura alquanto inverosimile.
Insomma non trovo una logica nelle numerose situazioni di disgrazia molte delle quali preesistenti lo sparo di quel proiettile.
Se qualcuno ha un'idea mi aiuti a capire.
Lorenzo Urbani
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