federico barche
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venerdì 3 novembre 2006
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incomunicabilità sul pianeta terra
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Babel. Benvenuti nel frullatore di Iñarritu. Il golden boy della nouvelle vague della cinematografia mondiale (alla pari con Paul Thomas Anderson, sia chiaro…) ci offre la sua personale Babele contemporanea. La storia è nota: si parla delle vicende dei personaggi di quattro nazioni lontane fra loro (Stati Uniti, Messico, Marocco e Giappone) che, causa un colpo di fucile partito dalle mani di due ragazzini in un paese sperduto del Marocco, vengono a intrecciarsi fra di loro. Ma il buon Alejandro vuole tenerci in sala due ore e trentacinque minuti per parlarci della storia di un fucile? No di certo. Il regista parla di incomunicabilità, ecco il tema. L’incomunicabilità fra il cacciatore giapponese e sua figlia, quella fra Brad Pitt e le autorità marocchine, l’incomunicabilità fra la tata messicana, il nipote (un Gael Garcia Bernal barbuto e “messicano” come non mai) e le autorità doganali americane, quella fra Brad Pitt e i compagni di viaggio.
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Babel. Benvenuti nel frullatore di Iñarritu. Il golden boy della nouvelle vague della cinematografia mondiale (alla pari con Paul Thomas Anderson, sia chiaro…) ci offre la sua personale Babele contemporanea. La storia è nota: si parla delle vicende dei personaggi di quattro nazioni lontane fra loro (Stati Uniti, Messico, Marocco e Giappone) che, causa un colpo di fucile partito dalle mani di due ragazzini in un paese sperduto del Marocco, vengono a intrecciarsi fra di loro. Ma il buon Alejandro vuole tenerci in sala due ore e trentacinque minuti per parlarci della storia di un fucile? No di certo. Il regista parla di incomunicabilità, ecco il tema. L’incomunicabilità fra il cacciatore giapponese e sua figlia, quella fra Brad Pitt e le autorità marocchine, l’incomunicabilità fra la tata messicana, il nipote (un Gael Garcia Bernal barbuto e “messicano” come non mai) e le autorità doganali americane, quella fra Brad Pitt e i compagni di viaggio. Più in generale l’incomunicabilità cui sembrano ormai costretti gli abitanti del pianeta Terra. E’ difficile vivere il mondo nel 2006, sembra dirci il regista di Amores Perros e 21 grammi, ma a un tratto, quando ormai non ce l’aspettiamo più, uno squarcio di sereno. E’ ancora possibile comunicare. Succede verso fine film quando la ragazzina giapponese (sordomuta, e quindi emblema delle difficoltà di comunicazione) riesce a porgere al giovane agente di polizia le sue impressioni su un pezzo di carta e sembra aprirsi con suo padre o quando vediamo Brad Pitt stabilire un bel legame con la guida marocchina. Questo è Babel. Ambizioso ma non pretenzioso, il film ci è sostanzialmente piaciuto. Le soluzioni visive e i movimenti della macchina da presa sono come sempre superbi e giustificano pienamente la Palma d’oro per la migliore regia a Cannes, la trama importante, i dialoghi scarni ma ce lo aspettiamo da un film che parla di difficoltà a comunicare con il prossimo. Evviva Alejandro quindi, ma noi continuiamo a pensare che il suo miglior film sia ancora il primo, quando il regista ancora non era sbarcato a Hollywood e girava a Mexico City lo splendido Amores Perros.
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turi catania
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domenica 29 ottobre 2006
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la libertà e la sicurezza in marocco e in messico
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Aattanagliati quotidianamente da un crescendo inaresstabile di frode e violenza, comunamente si pensa all'insostituibile opera svolta dalle forze dell'ordine, come ad un incacellabile debito che contraiamo con essi, vigli e solerti custodi della nostra sicurezza, anche a costo del più estremo sacrificio.
Innegabile che ciò sia vero, mo solo parzialmente:Alejandro Inarritu, ci rammenta, benefica terapia alle amnesie sugli irrinunziabili valori di garanzia sui quali è stato edificato lo stato di diritto contro gli abusi intollerabili dell'ancien regime, come gli apparati preposti alla sicurezza possono essere portatori di abusi e illegalità eguali, se non peggiori,a quelli di chi deliberatamente attenta ai nostri beni fondamentali:l'integrità fisica e la libertà|
Il film, al di là di alcuni luoghi comuni, che comunque attingono porzioni di verità (l'egoismo smodato dei compagni di corriera, la vacuità degli adolescenti nipponici e non, la miseria e l'incultura cui sono condannate masse crescenti di umanità dolorente nella lande messicane e marocchine) appare un disperato grido di allarme contro l'incomunicabilità cui sembrano essere condanati gli abitanti del pianeta.
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Aattanagliati quotidianamente da un crescendo inaresstabile di frode e violenza, comunamente si pensa all'insostituibile opera svolta dalle forze dell'ordine, come ad un incacellabile debito che contraiamo con essi, vigli e solerti custodi della nostra sicurezza, anche a costo del più estremo sacrificio.
Innegabile che ciò sia vero, mo solo parzialmente:Alejandro Inarritu, ci rammenta, benefica terapia alle amnesie sugli irrinunziabili valori di garanzia sui quali è stato edificato lo stato di diritto contro gli abusi intollerabili dell'ancien regime, come gli apparati preposti alla sicurezza possono essere portatori di abusi e illegalità eguali, se non peggiori,a quelli di chi deliberatamente attenta ai nostri beni fondamentali:l'integrità fisica e la libertà|
Il film, al di là di alcuni luoghi comuni, che comunque attingono porzioni di verità (l'egoismo smodato dei compagni di corriera, la vacuità degli adolescenti nipponici e non, la miseria e l'incultura cui sono condannate masse crescenti di umanità dolorente nella lande messicane e marocchine) appare un disperato grido di allarme contro l'incomunicabilità cui sembrano essere condanati gli abitanti del pianeta.Non solo:Inarritu sembra ammonirci sulla stessa astratta possibilità che un mondo segnato da cosi profonde diseguagliaze, così profondamente ingiuste, possa sopravvivere in eterno. Ci addita, infine illuminante le vicende nella città marocchina, come nell'amicizia fra i popoli, nella dignità degli esseri umani e nella loro infinita capacità di essere solidali risiede l'unica vera risorsa per rendere accettabile la vita, contro cui tramano comunque, sempre in agguato, la brutalità del caso e la stupidità degli esseri umani.
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skyros
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giovedì 2 novembre 2006
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la tesi di un genio: inarritu
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Inarritu prima di girare i suoi tre film ha studiato la storia del cinema: me lo immagino in una stanza di Città del Messico, caldo soffocante, una pala al soffitto che gira... è da poco passato mezzogiorno e il buon Alejandro si alza, ancora stanco della notte passata in qualche bario a suonare pezzi di latino house... si di notte lavora come dj ma sogna di fare un film... e nei caldi pomeriggi si riguarda i film russi del primo novecento, poi ha quella cassetta che continua a mandare avanti e indietro, è quel film di Sergio Leone << mica male sto italiano, questo si che sa giocare col montaggio>>......
Forse è la mia visione romantica del cinema, della bella favola del regista, ma è vero che Inarritu ha imparato a giocare con il montaggio; in "21 grammi" era talmente accentuato questo gioco che un pò infastidiva, come quando Prince e Santana insistono troppo con un assolo, vien da dire, si lo sappiamo che siete bravi, ma poi l'ascolti questo assolo e vorresti che non finisse mai.
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Inarritu prima di girare i suoi tre film ha studiato la storia del cinema: me lo immagino in una stanza di Città del Messico, caldo soffocante, una pala al soffitto che gira... è da poco passato mezzogiorno e il buon Alejandro si alza, ancora stanco della notte passata in qualche bario a suonare pezzi di latino house... si di notte lavora come dj ma sogna di fare un film... e nei caldi pomeriggi si riguarda i film russi del primo novecento, poi ha quella cassetta che continua a mandare avanti e indietro, è quel film di Sergio Leone << mica male sto italiano, questo si che sa giocare col montaggio>>......
Forse è la mia visione romantica del cinema, della bella favola del regista, ma è vero che Inarritu ha imparato a giocare con il montaggio; in "21 grammi" era talmente accentuato questo gioco che un pò infastidiva, come quando Prince e Santana insistono troppo con un assolo, vien da dire, si lo sappiamo che siete bravi, ma poi l'ascolti questo assolo e vorresti che non finisse mai...
Tornando a noi, in Babel, il buon alejandro fa un giro largo, circolare e perfetto, per dimostare delle tesi elementari: i bambini di sto mondo, per un motivo o per l'altro sono soli, abbandonati involontariamente da genitori incapaci a sopportare la complessità di questo mondo. Ci dice anche che il pericolo vien da lontano e arriva dentro le nostre case, corrompe la nostra anima e provoca danni irrimediabili. Ci dice soprattutto che chi paga il conto è chi non ha la carta di credito, chi non ha un elicottero o un agente di confine che viene a salvarlo, no non c'è europe assistence per il pastorello sull'Atlante marocchino, non c'è permesso di soggiorno per la colf messicana e non ci sarà la consolazione per la ragazza sordo muta giapponese.
Inarritu merità un 10 e lode, e per questo è stato pluri premiato per la regia, perchè ci fà entrare nei panni del bambino marocchino, siamo noi che in soggettiva siamo la sorellina, perchè ci immerge nel mondo silenzioso dell'adolescente di tokio. Bellissima la scena della discoteca!! Peccato, e qui mi ripeto, che in Italia non si riescano a vedere al cinema i film in lingua originale! Ma scusate, perchè? A chi mi dice di non sapere l'inglese, io dico di guardare le scene di questo film parlate in giapponese o in marocchino e sottotitolate, è bello e naturale sentire la lingua originale!! E poi, vergognoso come sono stati doppiati i personaggi marocchini e messicani!! Addirittura il cugino messicano diventa una macchietta veneta, sembra di sentire un personaggio della Locandiera!! skyros.blog.kataweb.it
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martina
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giovedì 9 novembre 2006
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altalenante
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Un film altalenante come la mia opinione sul film.
Un film che alterna momenti di un'ottima regia, intensa ed originale, a momenti di troppa lentezza ed fermi eccessivi facendo durare il film forse un po' piu' del necessario.
L'argomento trattato è molto interessante, ma soprattutto il modo in cui il regista ha deciso di trattarlo, rappresentando un mondo globalizzato, che nonostante sia visto in 4 parti diverse (per localizzazione, per vita quotidiana) del mondo (america, marocco, giappone, messico) siano comunque contaminate l'una da l'altra.
Il mondo, una babele di diverse realta', diversi linguaggi, diverse abitudini e costumi, ma con una comunione, la solitudine, l'incomprensione, l'impotenza davanti alle istituzioni, la sensazione di far parte di una babele, appunto, piena di vite che contano (l'ambasciata americana che preferisce mandare un elicottero e bloccare l'ambulanza marocchina per garantire il meglio ai propri cittadini) e vite che di contro vengono spezzate per burocrazia o insensibilità al valore di una vita solo per il dubbio di aver a che fare con un terrorista (vedi il bambino marocchino).
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Un film altalenante come la mia opinione sul film.
Un film che alterna momenti di un'ottima regia, intensa ed originale, a momenti di troppa lentezza ed fermi eccessivi facendo durare il film forse un po' piu' del necessario.
L'argomento trattato è molto interessante, ma soprattutto il modo in cui il regista ha deciso di trattarlo, rappresentando un mondo globalizzato, che nonostante sia visto in 4 parti diverse (per localizzazione, per vita quotidiana) del mondo (america, marocco, giappone, messico) siano comunque contaminate l'una da l'altra.
Il mondo, una babele di diverse realta', diversi linguaggi, diverse abitudini e costumi, ma con una comunione, la solitudine, l'incomprensione, l'impotenza davanti alle istituzioni, la sensazione di far parte di una babele, appunto, piena di vite che contano (l'ambasciata americana che preferisce mandare un elicottero e bloccare l'ambulanza marocchina per garantire il meglio ai propri cittadini) e vite che di contro vengono spezzate per burocrazia o insensibilità al valore di una vita solo per il dubbio di aver a che fare con un terrorista (vedi il bambino marocchino).
Una babele dove "il lieto fine americano" per i due americani in Marocco, l'insensibilita' americana per "chi lavora illegalemte" e si e' stabilizzato da 16 anni in America, si fa' sentire se pur velatamente, come critica.
Un film che non lascia molto spazio ai dialoghi, che per buona parte del film sono, miratamente ed apprezzatamente tradotti con i sottotitoli.
L'attenzione è dedicata molto alle immagini, ai primi piani, agli occhi ed ai volti che ben rappresentano le 4 realta' mondiali, secondo me scelte in modo piu' che ottimo.
Il film ti mette nella visione incredula, impaurita, quasi incomprensibile del turista americano che all'interno del pulman, guarda, filtrato dal vetro del finestrino, una realtà diversa dalla sua. Così tu, spettatore hai la sensazione, realizzata, dell'incapacità di comprendere un mondo diverso dal tuo, non tanto per cultura od usanze, ma proprio di realta' di vita quotidiana.
Tu spettatore realizzi che la notizia di un errore di 2 bambini viene amplificata fino a poter creare un incidente diplomatico.
Anche la scelta, sapiente, del linguaggio dei sordomuti, e la visione del mondo da parte di una ragazza sordomuta, che entra in un mondo (la discoteca) frastornante, agitato fino allo spasmo, ma del quale non sente niente, se non la visione dei colori, i corpi che si muovono, attaccati l'un l'altro, ma nel quale lei non puo' entrare, se non forzandosi.
Tanto ancora ci sarebbe da analizzare e paragonare, tanto il film sia pieno di spunti.
Di contro ho trovato che in certi momenti il regista si sia posizionato troppo su alcune scene, lasciando spazio al silenzio dei dialoghi coperti da una musica ed immagini che si belli entrambi, ma che davano la sensazione di esagerare nella ricerca della perfezione, intercalando nella lentezza.
Tutto sommato pero' un film degno di nota, che consiglio di vedere o di rivedere come nel mio caso, per capire dove il voto a quest'opera possa tendere.
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weach
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domenica 5 dicembre 2010
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intensa comunicazione per immagini
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lettura gradita
La potenza dei simboli,in senso implicito,è forma , e le immagini statiche ed in movimento disegnano intensamente il dramma che si vuole celebrare .
Lunghi primi piani, ampi silenzi, grande spazio alla dinamica "dell'azione energetica "fatta da inquadrature statiche ed in movimento che "parlano " un linguaggio lontano dal rumore, comunque vibrazionale .
E' in scena il dolore planetario ,in contesti differenti , culture negli emisferi opposti del pianeta , ma con una sola ed unica congiunzione fatta di assenze, di vuoti ,di mancanza d'amore ,di indifferenza , ma anche di ricerca di un baricentro per ripartire;si cerca di sentire il cuore unico motore di pace e d'amore.
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lettura gradita
La potenza dei simboli,in senso implicito,è forma , e le immagini statiche ed in movimento disegnano intensamente il dramma che si vuole celebrare .
Lunghi primi piani, ampi silenzi, grande spazio alla dinamica "dell'azione energetica "fatta da inquadrature statiche ed in movimento che "parlano " un linguaggio lontano dal rumore, comunque vibrazionale .
E' in scena il dolore planetario ,in contesti differenti , culture negli emisferi opposti del pianeta , ma con una sola ed unica congiunzione fatta di assenze, di vuoti ,di mancanza d'amore ,di indifferenza , ma anche di ricerca di un baricentro per ripartire;si cerca di sentire il cuore unico motore di pace e d'amore.
Un film dove il regista , prendendo atto di quanto vuote siano le parole inconsapevoli e non in linea con il cuore, utilizza una comunicazione per "immagini" ,non contaminate da una perdita vibrazionale ;il tutto per dare peso e consistenza al dramma esistenziale che si vuole rappresentare .
Bello, non commerciale , pieno di sentire vero, un accusa all'indifferenza dell uomo.
weach illuminati
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claux
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giovedì 4 settembre 2008
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prendi 3 paghi 1 = ottimo film e guadagno!
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Diciamo che è stata una bella sopresa trovarsi davanti a 3 film, tanto distanti nello spazio quanto uniti nel significato, che danno vita a una delle migliori pellicole degli ultimi anni sul tema della globalizzazione. La realtà distante ma sempre davanti ai nostri televisori del medio oriente con tutti i suoi problemi e le sue contraddizioni, l'america che guarda solo all'estetica e non ai veri problemi degli americani (pitt che sceglie il viaggio in marocco per essere "soli" chissà forse in america non serebbe riuscito a riconquistare sua moglie?), il giappone nella sua gelosa fotocopia americana e in questa ostinata rincorsa si porta con se i problemi della nostra società: gioventù drogata, mancanza di dialogo (non a caso secondo me il regista sceglie la ragazza sordomuta), il rapposto con i genitori perduto.
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Diciamo che è stata una bella sopresa trovarsi davanti a 3 film, tanto distanti nello spazio quanto uniti nel significato, che danno vita a una delle migliori pellicole degli ultimi anni sul tema della globalizzazione. La realtà distante ma sempre davanti ai nostri televisori del medio oriente con tutti i suoi problemi e le sue contraddizioni, l'america che guarda solo all'estetica e non ai veri problemi degli americani (pitt che sceglie il viaggio in marocco per essere "soli" chissà forse in america non serebbe riuscito a riconquistare sua moglie?), il giappone nella sua gelosa fotocopia americana e in questa ostinata rincorsa si porta con se i problemi della nostra società: gioventù drogata, mancanza di dialogo (non a caso secondo me il regista sceglie la ragazza sordomuta), il rapposto con i genitori perduto... e molti altri spunti...
Non aggiungo altro consiglio a tutti di vederlo.
Alcune note le vorrei inserire sulla perfetta regia, cambi di scena, e colonne sonore perfetti e emozionanti che mai stonano con questo ottimo film.
UNA LEZIONE DI CINEMA AI REGISTI HOLIWOODIANI (si ripete nonostrante gia l'avesse fatto con 21grammi...)
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enrisaviano
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martedì 7 agosto 2007
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il potere di una sola arma
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E' uno dei più bei film che ho visto nella mia esistenza, un capolavoro assoluto. Lo dimostra il fatto che, nonostante le storie siano sfalsate ed intrecciate temporalmente, sono tutte incredibilmente vive e comunicative. Ruota tutto attorno ad una sola arma, un'arma che complice l'ingiustizia e la chiusura delle del cuore umano, semina dolore e tragedia assecondando la legge karmica del destino. Una sola arma può muovere una incredibile spirale di violenza. Enri
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(di alepol)
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nike22
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sabato 21 novembre 2015
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quattro storie per una vita!
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Alejandro Gonzales Inarritu è uno di quei registi che amano colpire dritto allo stomaco i propri spettatori. Come i precedenti “Amores perros” e “21 grammi” anche l’ultimo “Babel” è un film spietato, crudo, desolante e desolato, e nel medesimo tempo splendido, appassionante, esaltante ed emozionante. Come la vita d’altronde, quella vera.
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Alejandro Gonzales Inarritu è uno di quei registi che amano colpire dritto allo stomaco i propri spettatori. Come i precedenti “Amores perros” e “21 grammi” anche l’ultimo “Babel” è un film spietato, crudo, desolante e desolato, e nel medesimo tempo splendido, appassionante, esaltante ed emozionante. Come la vita d’altronde, quella vera.
“Babel” è proprio un ragionamento sulla vita, sull’esistenza di ognuno di noi, sul caso, sul destino, sugli uomini, sulla loro difficoltà nel comunicare, sulle distanze, reali o solo immaginate, volute, o subite. Inarritu costruisce un film corale intrecciando le esistenze di diverse persone in un modo talmente casuale da risultare quasi scritto. Siamo in Marocco, una guida vende a una famiglia di pastori un fucile che servirà loro per allontanare gli sciacalli che minacciano il proprio gregge. Una baby-sitter messicana bada ai figli di una coppia (Pitt, Blanchett) che sta affrontando un viaggio proprio in Marocco, mentre in Giappone un padre tenta di rimettere in sesto la vita della propria figlia sordomuta.
Queste in sintesi le quattro realtà che affollano il mondo di “Babel”, un mondo (quello moderno) ormai completamente globalizzato, anche se solo in apparenza. I diversi personaggi vivono lontanissimi gli uni dagli altri, ma è come se vivessero un’esistenza unica; tramite queste quattro storie Inarritu ci racconta (o almeno tenta di raccontarci) una stessa vita, uno stesso mondo. I personaggi del suo film sono più vicini di quanto possa sembrare, respirano la stessa aria, vivono lo stesso tempo, gioiscono e soffrono insieme. “Babel” è un film sul caso è vero, sulla casualità della vita, ma è anche un film che riflette sui rapporti interpersonali, sulle distanze che separano un uomo dall’altro.
Inarritu gioca con le vite dei propri personaggi, le fa intrecciare, le fa esplodere in silenzio (strepitoso, per esempio, lo stacco tra il dolore assordante di Cate Blanchett e il silenzioso mondo di Chieko), le mette in scena e osserva quel che ne consegue, naturalmente.
E' un film sull’incomunicabilità “Babel”, rappresentata sia a livello mondiale (l’impossibilità di comunicazione tra due nazioni) sia a livello personale, intimo, in quella che è forse la storia più bella, quella di Chieko e di suo padre, vittime e artefici al medesimo tempo del muro invisibile che viene a crearsi tra loro (e tra loro e il mondo circostante).
E allora, all’interno di questa torre di Babele che è la vita stessa ognuno è solo sembra suggerirci Inarritu: il dolore, come la gioia sono dietro l’angolo, è questione solo di riuscire a vederli, apprezzarli.
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filippo catani
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sabato 9 marzo 2013
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un buon film ma manca un guizzo
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Diverse storie partono una parallela all'altra finendo poi per intersecarsi seppur si svolgano in continenti diversi. Una coppia è in viaggio in Marocco per cercare di superare la perdita del loro ultimo figlio. La donna però viene colpita da un proiettile vagante sparato da un pastore. Intanto i figli della coppia vengono portati in Messico dalla governante che deve presenziare al matrimonio del figlio. A Tokyio intanto una giovane ragazza sordomuta cerca di superare un grave lutto del passato cercando di dare sfogo alla sua sessualità.
Il film è molto interessante ma rispetto al precedente 21 grammi perde un po'. Certo ci sono alcuni punti interessanti nelle storie che si intersecano e sicuramente la parte più importante è quella dell'incomunicabilità che nella ragazza giapponese è ai massimi livelli ma che domina anche nel rapporto tra la coppia americana.
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Diverse storie partono una parallela all'altra finendo poi per intersecarsi seppur si svolgano in continenti diversi. Una coppia è in viaggio in Marocco per cercare di superare la perdita del loro ultimo figlio. La donna però viene colpita da un proiettile vagante sparato da un pastore. Intanto i figli della coppia vengono portati in Messico dalla governante che deve presenziare al matrimonio del figlio. A Tokyio intanto una giovane ragazza sordomuta cerca di superare un grave lutto del passato cercando di dare sfogo alla sua sessualità.
Il film è molto interessante ma rispetto al precedente 21 grammi perde un po'. Certo ci sono alcuni punti interessanti nelle storie che si intersecano e sicuramente la parte più importante è quella dell'incomunicabilità che nella ragazza giapponese è ai massimi livelli ma che domina anche nel rapporto tra la coppia americana. Certo troviamo lo sfruttamento delle persone (i coniugi americani vorrebbero impedire alla governante di andare al matrimonio del figlio perchè la zia non può andare da loro), troviamo il grande problema del confine con il Messico che porterà ad una accellerazione della crisi. Però altri punti sono un po' artificiosi; Brad Pitt fa la conoscenza di un uomo del luogo e supera così i preconcetti che aveva perchè viene aiutato a curare la moglie e anche la storia del fucile appare un po' così. Bene il cast (forse la Blanchette un po' sacrificata dal ruolo così come Pitt) ma senza dubbio la cosa più positiva del film è la struggente colonna sonora che accompagna ogni capitolo della pellicola.
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andrea alesci
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giovedì 27 settembre 2012
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un mosaico di vite disperse
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Nella malinconica melodia dell’incomprensibilità tracciata da Alejandro González Iñarritu ognuno è sordo alle voci dell’altro, che sia prossimo o lontano. Non capirsi, non comprendersi: piomba su di noi già dal titolo (Babel) questo precipitato biblico. Un disperdersi moderno nella terrena babele d’incomprensioni e ostacoli che gli uomini pongono sulla strada della reciproca convivenza.
Babel rappresenta la tragedia del mondo secondo la partitura del dolore. Ricongiunzione di storie disperse nello spazio, ma intimamente collegate nel tempo. Il montaggio alternato è condizione quasi necessaria al racconto di frammenti (inconsapevoli) d’un medesimo grande specchio, dove il tempo va in pezzi come riflesso di quello interiore, della memoria, che nella nostra testa si sfalda in immagini sovrapposte e indistinguibili.
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Nella malinconica melodia dell’incomprensibilità tracciata da Alejandro González Iñarritu ognuno è sordo alle voci dell’altro, che sia prossimo o lontano. Non capirsi, non comprendersi: piomba su di noi già dal titolo (Babel) questo precipitato biblico. Un disperdersi moderno nella terrena babele d’incomprensioni e ostacoli che gli uomini pongono sulla strada della reciproca convivenza.
Babel rappresenta la tragedia del mondo secondo la partitura del dolore. Ricongiunzione di storie disperse nello spazio, ma intimamente collegate nel tempo. Il montaggio alternato è condizione quasi necessaria al racconto di frammenti (inconsapevoli) d’un medesimo grande specchio, dove il tempo va in pezzi come riflesso di quello interiore, della memoria, che nella nostra testa si sfalda in immagini sovrapposte e indistinguibili.
Immagine, la nostra lingua comune. Potremmo guardare il film senza capire nemmeno una delle lingue parlate e nonostante ciò entrare nell’animo dei personaggi, in movimento su un fondale di questioni (terrorismo, controllo, tolleranza).
Come vagoni spezzati che viaggiano su binari diversi, assistiamo allo scorrere di quattro storie, locomotiva trainante il matrimonio in crisi di Richard Jones (Brad Pitt) e sua moglie Susan (Cate Blanchette). Territorio incidentale dell’intricato puzzle è il Marocco: il mondo sembra rinchiudersi nel minuscolo villaggio di Tazarine, dove si materializza la paura dell’estraneo. Gli abitanti guardati con diffidenza dai turisti, presenze provvisorie giunte per vedere terre lontane, ma senza volerle realmente guardare. E la loro insensibilità, i di fare una cosa soltanto: andarsene, abbandonare. Così, nella stanzetta misera di Tazarine si condensa il dolore di un uomo e una donna, ma è un dolore che partorisce amore, il riannodarsi di un legame coniugale nella lacerazione della tragedia: un proiettile ha colpito Susan e ora la sta dissanguando, ed è come se tutto il film fosse attraversato da quel proiettile, dal colpo di fucile sparato per gioco da due bambini. Quelli di una povera e umile famiglia di pastori nel deserto marocchino: e nella polvere da sparo esplosa dal fucile l’alone nero di un sempre vivo sospetto del terrorismo.
Dalla polvere silenziosa del deserto marocchino alla polvere assordante di un Messico caotico, Paese che si contenta di poco, di balli e musiche e sorrisi, ma sempre cova nascosto (qui nella figura dell’irruento Santiago/Gaél Garcia Bernal) il rancore per il gringo e l‘ordine costituito, sollevando così in cupe volute un altro problema: quello della frontiera tra Usa e Messico, di due mondi che si guardano a muso duro dai tempi di Alamo. Un matrimonio latinoamericano coniugato nella figura della tata Amelia (Adriana Barraza) e poi diventato divorzio irrevocabile: Amelia espulsa per sempre dagli Stati Uniti d’America, dove ha vissuto per sedici anni. Non c’è più posto per lei, chi sbaglia paga e il perdono non è contemplato.
Il proiettile si fionda a Tokyo, dove si compongono le tessere disordinate di una vita da adolescente, vita anormale di una ragazza sordomuta, in conflitto con il padre vedovo. Di una ragazza che si sente distante da tutti, e vorrebbe soltanto uniformarsi per esistere.
Storie che s’incastrano in un babelico mosaico, in un insieme dove ogni cosa è saldata dalla colonna sonora di Gustavo Santaolalla: reticolo di note che cala sulle immagini con la voce del monito, di una musica che ci sprofonda nella malinconia degli errori umani, diventando il grimaldello per il cambiamento. E nelle luci della città che si allontana lasciamo queste vite cicatrizzate che serbano la ferita del medesimo proiettile.
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