L'età dell'innocenza

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Un film di Martin Scorsese. Con Geraldine Chaplin, Michelle Pfeiffer, Winona Ryder, Daniel Day-Lewis, Hugh Smith.
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Titolo originale The Age of Innocence. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 120 min. - USA 1993. MYMONETRO L'età dell'innocenza * * * 1/2 - valutazione media: 3,70 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

“L’età dell’innocenza è probabilmente il più violento dei miei film,” ha detto Martin Scorsese a Henri Béhar che, per “Le Monde”, lo ha intervistato sul film fuori concorso con cui si è inaugurata la cinquantesima edizione della Mostra del cinema di Venezia. Ma come? E Taxi Driver, e Toro scatenato, e Quei bravi ragazzi, e Cape Fear, i bagni di sangue delle “mean streets”, i rituali della mafia?
La paradossale affermazione di Martin Scorsese riferita a un film d’epoca ambientato nella New York dei quartieri alti (che allora, nel 1870, erano più bassi, dalle parti della jamesiana Washington Square), a un affresco tutto trine, boiseries, argenti e trofei di fiori, centrato su un triangolo amoroso altoborghese senza grida, scene madre, viluppi erotici - ma che belle, ma che intense le uniche due castissime scene d’amore - è la chiave di lettura più acuta di un bellissimo film che produce un duplice shock. Quello di vedere, appunto, Martin Scorsese passare dalle giungle d’asfalto alle giungle di velluto dei salotti (ma si era già cimentato benissimo con quelli contemporanei e con un altro, più rumoroso triangolo, nel suo episodio di New York Stories). E quello di vedere un’America che da molto tempo - procedendo a ritroso, da I Bostoniani di Ivory, da L’ereditiera di Wyler, da L’orgoglio degli Amberson - il cinema ha trascurato, preferendole quella più popolare, violenta, colorata o avventurosa dell’oggi - o del West.
L’improbabile e imprevedibile incontro tra il regista italoamericano della Little Italy malavitosa e la grande Edith Wharton - l’autrice “bianca, anglosassone, protestante”, aristocratica, miliardaria, sofisticata, di L’età dell’innocenza - ha prodotto il risultato assieme sorprendente e fedelissimo di un grande film antropologico sui riti, i miti, le crudeltà, i sacrifici, della tribù della gente bene nella New York di fine Ottocento. Ma fin dai titoli di testa, firmati da Elaine e Saul Bass - che mostrano dei bellissimi fiori schiudersi e dilatarsi in trasparenza dietro un merletto, con un effetto assieme affascinante e ripugnante - L’età dell’innocenza si presenta anche come un racconto morale sulla crudeltà del costume sociale.
Non certo solo quello dell’America gentilizia di Wharton. Le regole del gioco saranno magari cambiate, ma il sistema continua trionfalmente. E lo studio antropologico dei riti tribali, dei sistemi di parentela, degli abbigliamenti rituali, dei cibi tradizionali - che Scorsese registra con la precisione di uno storico del costume - offre a chiunque ne abbia voglia un modello di lettura per le strutture di qualsiasi tribù. Compresa - forse - 9uella dei festivalieri.
La storia che racconta L’età dell’innocenza è crudele, ma fragile. Newland Archer (Daniel Day-Lewis), un giovane avvocato di New York, è fidanzato con la bella May Welland (Winona Ryder), ma è attratto dalla cugina di lei, Ellen Olenska (Michelle Pfeiffer), sposata in Europa, separata, e tornata in patria, a casa, al paese dove crede che tutto sia “buono”. Avrebbero ogni ragione per amarsi. Ma le tradizioni della tribù non lo permettono, la buona società non accetta la condizione di donna sola di Ellen, il cerchio della convenzione si stringe, le “famiglie” - non diversamente da quelle mafiose - riaffermano e proteggono l’ordine durante una grande cena del clan. Anche nel paese che ha messo nella sua costituzione il diritto alla “ricerca della felicità”, la felicità personale è soggetta a regole e prove insuperabili.
Scorsese racconta la sua “età dell’innocenza” puntando, al di là delle accuratissime ricostruzioni di Ivory, al modello grandioso ed epico del Gattopardo, cui rende omaggio con un ballo che è, insieme, un percorso nella crudeltà dei quartieri alti, un trattato sull’estetica della borghesia ricca dell’epoca, e una galleria di personaggi di John Singer Sargent (il meraviglioso ritrattista che Corbaccio ha scelto per illustrare la ristampa del romanzo nella vecchia traduzione Longanesi di Amalia D’Agostino). Il suo distacco da antropologo è accentuato dalla scelta di far raccontare i raccordi della vicenda dalla voce fuori campo di Joanne Woodward, che ironicamente descrive e commenta personaggi ed episodi con le parole di Edith Wharton e il tono di voce pacato che la grande signora -possiamo immaginare - avrebbe usato nel raccontare tanto tumulto amoroso per nulla.
Wharton, non dimentichiamolo, scriveva L’età dell’innocenza nel 1920, solo cinque anni prima di Il grande Gatsby, solo sette prima di Fiesta, e un lustro abbondante dopo che Gertrude Stein aveva immaginato i suoi Teneri bottoni. Anche lei, insomma, raccontava le sue storie con il distacco della lontananza. Scorsese, che per sé sceglie il ruolo simbolico di un fotografo (e quello di due poveracci tra la folla di una stazione per il padre appena scomparso, a cui il film è dedicato, e per la madre) racconta il film con lo stesso distacco. Ed è forse, assieme a qualche preziosismo stilistico e qualche gibigianna di troppo, l’unico limite di un film troppo grandioso per la delicatezza della sua trama, che, se trova in Daniel Day-Lewis un interprete distaccato e incerto, in compenso ha in Michelle Pfeiffer l’incarnazione commovente delle donne “diverse” e speciali che popolano i romanzi dell”angelo della devastazione” (come James definì Wharton). Mentre Winona Ryder è una perfetta giovane signora che usa le alleanze, le regole e i codici del bel mondo per difendere quella cosa convenzionale che lei pensa essere la sua felicità. Ma se la storia di L’età dell’innocenza lascia la bocca amara, il film lascia un ricordo festoso: per gli stupendi costumi di Gabriella Pescucci, le splendide scenografie di Dante Ferretti, la calda fotografia di Michael Ballhaus. Bernstein ci dà dentro troppo con le musiche: ma nessuno è perfetto.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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