Considerato uno dei registi più influenti del cinema norvegese contemporaneo, il danese Joachim Trier ha compiuto un'operazione di ridefinizione sulle sue narrazioni, sospendendo le sue storie tra l'intimità e l'universalità.
Un'azione che gli ha permesso di diventare anche uno degli autori più interessanti del panorama europeo della Settima Arte, nel quale si è imposto per la sua capacità di esplorare temi come la solitudine, la memoria e l'identità, spesso all'interno di dinamiche familiari, rendendolo un punto di riferimento internazionale (confermato dai numerosi riconoscimenti ottenuti nei principali festival cinematografici, che hanno consolidato la sua reputazione a livello globale).
La domanda centrale della filmografia di Trier è sempre la stessa: come si costruisce il Sé attraverso il passato e le esperienze vissute, attraverso perdite e separazioni? La risposta si trova all'interno l'analisi delle tensioni e dei legami familiari e in quella complessa lontananza dagli altri che può anche diventare un'introspezione alienante.
Raffinato e profondamente emotivo, predilige inquadrature intime e ravvicinate, spesso utilizzando primi piani e primi mezzi piani per catturare i sentimenti dei suoi personaggi, in una profondità di campo spesso ridotta, proprio per esaltare il senso di isolamento. Se ci sono dei movimenti di camera, questi sono fluidi, naturali, con frequenti carrellate e panoramiche lente, che da un lato seguono il personaggio, dall'altro immergono lo spettatore nell'ambientazione, di vitale importanza per la storia. Ne è un chiaro esempio, la Trilogia di Oslo, il prediletto contesto urbano all'interno del quale inserisce ben tre dei suoi film in un arco temporale lungo quasi vent'anni.
Nipote del regista norvegese Erik Løchen e figlio di Jacob Trier, che ha lavorato nella parte sonora del film d'animazione norvegese Flåklypa Grand Prix, uno dei più celebri stop-motion del cinema scandinavo, Joachim Trier nasce a Copenhagen, in Danimarca, nel 1974.
Volendo seguire le orme di famiglia, si diploma al European Film College di Ebeltoft, sempre in Danimarca, approfondendo gli studi a Londra con la frequentazione della National Film and Television School.
I corti
La sua carriera cinematografica inizia con tre cortometraggi: Pietá (1999), Still (2001) e Procter (2002). Piccole opere che hanno avuto un ruolo fondamentale nella definizione del suo stile e della sua poetica, attraverso l'esplorazione del senso di colpa e della redenzione, ma anche cominciando a considerare il tempo e la memoria come possibili chiavi di lettura della sua riflessione cinematografica, anche in generi come il thriller psicologico.
La fortunata Trilogia di Oslo
Arriva poi la Trilogia di Oslo. Un trittico non pianificato fin dall'inizio, ma nato in modo organico, all'interno del quale il filo conduttore è il senso di ambizione e fallimento nella vita dei giovani adulti della capitale. Persone che affrontano le proprie insicurezze e le proprie aspettative sociali, cercando di trovare un senso alla loro esistenza in una città dall'atmosfera malinconica e dalla bellezza discreta. Oslo diventa quindi un personaggio a sé, che riflette emozioni e crisi interiori di chi la abita.
Utilizzando Anders Danielsen Lie come attore feticcio e il fidato e inseparabile Eskil Vogt alla sceneggiatura, Trier lascia che giovinezza e rinuncia si uniscano in un unico volto attraverso tre titoli ben precisi: Reprise (2006), Oslo 31. august (2011) e La persona peggiore del mondo (2021).
In Reprise, utilizza l'amicizia di due scrittori, uno pieno di successo e l'altro colpito da una serie di rifiuti dalle case editrici, per indagare sui cambiamenti del loro rapporto e sulla scrittura come forma di benessere personale. Mentre in Oslo, 31. august, segue un ragazzo in riabilitazione da tossicodipendenza, nel suo unico giorno di permesso per un colloquio di lavoro a Oslo, che approfitta di quell'uscita dalla comunità di recupero per incontrare amici, amanti e familiari, tentando di scacciare i fantasmi del suo passato, che vede come sprecato e deludente, forse anche cercando una ragione per continuare a sperare nel futuro.
A chiudere, arriva il film che si rivelerà degno di una candidatura all'Oscar per la migliore sceneggiatura originale: La persona peggiore del mondo.
Diviso in capitoli, la pellicola racconta l'educazione sentimentale di una donna libera, imprevedibile e contraddittoria, alle prese non solo coi problemi della sua generazione, ma anche con una dosata incertezza sentimentale.
Julie, la protagonista, è l'incarnazione dei Millennials: alla disperata ricerca di una ragione d'essere e parallelamente impegnata in una lotta contro la propria infelicità. Indecisa e inappagata, rifiuta categoricamente di inserirsi all'interno di un percorso familiare che la vuole fidanzata, moglie e madre e non insegue il mito della carriera e del lavoro ad ogni costo. Non avendo quindi direzioni, accumula esperienze, divaga, si ferma e poi riparte, sfruttando il proprio umorismo per non annegare nella paura.
Trier chiude, quindi, in bellezza. L'interiorità feroce contenuta nei dialoghi stretti e l'esistenza a volte brutale, che spinge irreversibilmente uomini e donne dell'età di Julie a fare del male ad altre persone quando i progetti e i desideri di vita non sono un percorso comune, scandiscono il ritmo del titolo e delineano una delle più interessanti antieroine romantiche del cinema norvegese, tutta espressioni imprecise e sguardi goffi, salvo poi nascondere una sensualità basata sull'inafferrabile, sul perduto, sulla confusione del momento.
Il film viene accolto molto bene dai critici cinematografici mondiali, venendo definito "un elegante e finemente dettagliato studio di personaggi".
Altri titoli
Ma in mezzo alla trilogia, Trier lavora su altri progetti e realizza il suo primo dramma in lingua inglese, dal noioso titolo italiano Segreti di famiglia (2015), che affronta il tema del lutto familiare con un cast che prevede Gabriel Byrne, Devin Druid, Isabelle Huppert e Jesse Eisenberg.
Affondando la faccia in gelidi temi come l'esigenza di crearsi uno spazio nel mondo per poter esprimere se stessi, la paternità, le aspettative e la voglia di ricominciare, Trier passa da una generazione all'altra per sottolineare le diverse prospettive su medesimi sentimenti, facendoli passare da malinconici a felici e viceversa, e lo fa attingendo a repertori vari, come la commedia giovanile o i film intimistici alla Michelangelo Antonioni (evidenti sono le citazioni con Blow Up). Un'ambigua contaminazione di formati e di definizioni d'immagine che dinamizzano gli eventi, affascinando e convincendo.
Tocca persino l'horror con il curioso e sottovalutato Thelma (2017), incentrato su una timida ragazza di provincia, cresciuta in una famiglia molto religiosa, che si sposta ad Oslo per frequentare l'università, finendo poi per innamorarsi di una sua compagna di corso e per sviluppare inquietanti e incontrollabili poteri.
E nel 2025 ottiene, dopo un'accoglienza brillante (una standing ovation record da quindici minuti alla sua première mondiale), il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes per Sentimental Value (2025) con Stellan Skarsgård, Renate Reinsve, Inga Ibsdotter Lilleaas ed Elle Fanning. Il suo sesto film è una storia intergenerazionale che racconta di un padre separato e delle sue due figlie, con le quali cerca di ricucire i rapporti, utilizzando come pretesto una collaborazione professionale. Facendosi forza su uno script elogiato per la profondità emotiva e per il sapore agrodolce di ogni battuta, Trier parla della vulnerabilità della riconciliazione all'interno della comunicazione familiare, che spesso cade nell'incapacità di parlare ai parenti, pur ripescando un tema primigenio (molto simile a quello usato in Reprise) dell'arte come contributo alla gioia e all'armonia delle relazioni.
A questi lungometraggi, va aggiunto il documentario Den andre Munch (2018), co-diretto assieme al fratello Emil Trier, che segue Karl Ove Knausgård attraverso il suo lavoro di curatore di una mostra per il Museo Munch.