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Faye Dunaway

Faye Dunaway (Dorothy Faye Dunaway) è un'attrice statunitense, produttrice, è nata il 14 gennaio 1941 a Bascom, Florida (USA).
Nel 1999 ha ricevuto il premio come miglior attrice non protagonista al Golden Globes per il film Gia. Dal 1968 al 1999 Faye Dunaway ha vinto 5 premi: David di Donatello (1968, 1977), Golden Globes (1977, 1999), Premio Oscar (1977). Faye Dunaway ha oggi 84 anni ed è del segno zodiacale Capricorno.

Una gloria indocile

A cura di Fabio Secchi Frau

Star broadwayana, televisiva e cinematografica, Faye Dunaway è stata l'attrice numero uno al mondo tra la fine degli Anni Sessanta e l'inizio degli Anni Settanta, l'epoca d'oro dei film americani più innovativi. Nessun'altra attrice, all'epoca, era richiesta quanto lei.
Di una bellezza classica, con zigomi cesellati e uno stile raffinato ed elegante, ha cominciato a recitare dimostrando da subito una bruciante e complessa passione per l'arte drammatica, che le ha permesso di attirare immediatamente le attenzioni di Hollywood.
A quel punto, non ci volle molto tempo perché potesse avere il suo primo ruolo da protagonista, interpretando una delle rapinatrici di banche più temute degli Anni Trenta. Poi, pluricandidata come miglior attrice agli Academy Awards, ottenne finalmente la tanto voluta statuetta per uno dei ruoli più insensibili e spietati di tutti i tempi, prototipo delle molte donne che verranno.
Negli Anni Ottanta, conquista anche il piccolo schermo, vincendo prestigiosi riconoscimenti sia in qualità di guest star che di personaggio principale di miniserie storiche o di costume, mentre negli Anni Novanta, ha dato prova della sua versatilità interpretando a Broadway la stella dell'opera lirica Maria Callas, salvo poi far parlare di sé più per stravaganze, capricci e liti sui set, causate dal suo leggendario brutto carattere, che per l'eccellenza delle sue performances. Fatti reali o presunti che hanno enormemente macchiato la sua reputazione, ma che lei ha sempre difeso, sostenendo che essi facevano parte della sua lotta per la libertà artistica e la reinvenzione di sé.
Sul finire degli anni, ha lasciato che il cinema la trasformasse in una cattiva chic, forse per farle pagare il fatto che avesse abbandonato l'industria cinematografica hollywoodiana per una vita più tranquilla a Londra, ma lei non se n'è preoccupata troppo, considerando la sua intera carriera un capolavoro di resilienza, costellata di interpretazioni indimenticabili.
Icona della Settima Arte, fieramente indipendente e determinata a sviluppare le proprie opportunità professionali, storicamente rilevante per ruoli immorali e controversi, è nell'insieme satirica e dark, strepitosa ma anche spinosa. Mai civettuola, ha prestato corpo e mente ad affascinanti aristocratiche, spie seicentesche, tormentate e inquiete fotografe, mogli affrante e colleghe di indubbia bravura. Eppure, al di là dei riconoscimenti e della fama, il suo percorso è stato segnato da sfide personali, reazioni negative da parte del pubblico e dall'incessante ricerca dell'autenticità artistica, anche quando si trattava di esplorare gli angoli più oscuri dell'esperienza umana. Un'intensa dedizione per la quale ha sfidato le aspettative degli Studios, della critica e del pubblico, ispirando generazioni di registe e attrici.
E che rimane dunque di Faye Dunaway oggi? Un volto impassibile. Una bellezza affilata. Uno sguardo, gelido e insondabile, che non sembra concedere scampo a nessuno. Un'interprete dallo spirito indomabile, capace di dare forma a figure e scene memorabili (bellissime quelle ritagliate in quadri scomposti da split screen sperimentali). Essere un'intellettuale davanti all'obiettivo del grande e del piccolo schermo ha un suo prezzo, ancora di più se lo si fa guidata da alcuni tra i più incisivi cineasti che la Storia ti ha fatto conoscere. Ma nonostante questo, nonostante anche quell'apparenza da femme fatale distaccata, Faye Dunaway ha sempre cercato di comunicarci qualcosa di inedito, di andare oltre il suo stesso simbolo.
A chi importa se molti hanno dimenticato che ha segnato con una manciata di altri attori (tutti maschi, oltretutto) il momento in cui il cinema americano si preparava a una trasformazione epocale? A chi importa se, fin da giovane, l'hanno etichettata come "troppo volitiva"? A chi importa quando i flop l'hanno sommersa e i critici hanno deriso la sua immagine di donna intuitiva e determinata, paragonandola a una moderna reincarnazione dell'immensa Joan Crawford... che non ha caso interpreterà con una simbiosi quasi fisica?
A nessuno, nemmeno a lei.
Ha già dimostrato, in noir e thriller, di avere una forza interpretativa tale da essere consacrata a diva e trendsetter. È già riuscita a mettersi al centro di titoli di grande successo, muovendosi oltretutto con estrema disinvoltura tra generi diversi (western, melodrammi, biopic). Ha già fatto capire al mondo di essere una donna vincente ma inflessibile, incarnando, con disarmante verità, ambizioni, ombre interiori, angosce e ferite dell'anima.
Certo, non ha scelto il cammino più semplice e in quel suo incedere, fatto di spigoli e chiaroscuri, ha passeggiato tra femminilità complesse e non addomesticabili, lasciando in tutti noi scene cult che nessuna dissolvenza potrà mai cancellare.

Studi
Faye Dunaway nasce nel 1941 a Bascom, in Florida, figlia di una casalinga e di un ufficiale del United States Army. Cresciuta assieme al fratello minore, dovrà affrontare nel 1955 il divorzio dei suoi genitori, dopo un'infanzia trascorsa tra l'America e l'Europa, vivendo principalmente a Mannheim, in Germania, e a Dogway Proving Ground, nello Utah.
Diplomata alla Leon High School di Tallahassee, Florida, si iscrive poi alla Florida State University e alla University of Florida, laureandosi in Teatro alla Boston University.

La carriera teatrale
Unitasi alla compagnia teatrale dell'Harvard's Loeb Drama Center assieme a Jane Alexander, lavora assiduamente con il regista Lloyd Richards su una nuova versione de "Il crogiuolo", che lo stesso Arthur Miller vedrà in scena.
All'età di ventuno anni, si iscrive all'American National Theater and Academy, dove è raccomandata da Elia Kazan, che è alla continua ricerca di nuovi volti per la sua Lincoln Center Repertory Company e vede nella Dunaway enormi potenzialità. Completerà poi la sua formazione all'HB Studio di New York City, poi debutterà a Broadway come sostituta nel dramma di Robert Bolt "Un uomo per tutte le stagioni".
Appasa anche in "Dopo la caduta" di Arthur Miller con Christopher Plummer, viene presa sotto l'ala protettrice di William Alfred, che diventerà il suo mentore, nonché il suo migliore amico.
Elia Kazan lavorerà con lei dirigendola in "But For Whom Charlie" (1964) e "I lunatici" (1964), mentre nel 1965, sarà nel cast de "Il Tartuffo" di Molière. Dopo "Hogan's Goat", diretta proprio da William Alfred (che la vorrà anche in "The Curse of an Aching Heart" nel 1982), reciterà in "Candida" (1971) e "Vecchi tempi" (1972).
Lavora incessantemente. Nel 1973, è Blanche DuBois sul palco con "Un tram che si chiama Desiderio", poi dopo una lunga pausa per impegni televisivi e cinematografici, torna sulle assi del teatro (questa volta quello londinese dell'Hampstead Theatre) per "Circe and Bravo" di Donald Freed, con la regia di Harold Pinter.
Dieci anni più tardi, è in "Master Class" (1996) impegnata in una tournée statunitense di innumerevoli repliche, nelle quali veste perfettamente i panni di Maria Callas, incantando tutti.
Purtroppo, nel 2019, dopo molti anni di assenza dal palcoscenico, viene licenziata dallo spettacolo "Tea at Five", a causa di alterchi tra lei e i membri della crew, in particolare con la sua ex assistente personale che l'ha citata in giudizio davanti alla Corte Suprema di Manhattan, accusandola di molestie verbali e discriminazioni.
Assunta per sostituire Glenn Close come Norma Desmond nel musical broadwayano "Sunset Boulevard", venne tuttavia liquidata perché Andrew Lloyd Weber ritenne che la sua voce non fosse all'altezza del ruolo.

La carriera televisiva
Per essere presa sul serio come attrice, rifiuta una parte da regular nella soap opera Sentieri nel 1965, scegliendo però di partecipare ad alcuni episodi di telefilm come Seaway: acque difficili e Le cause dell'avvocato O'Brien.
Negli Anni Settanta, dopo aver recitato la parte di Wallis Simpson nel film tv La donna che amo (1972), divide il set della fiction La scomparsa di Aimée (1976) di Anthony Harvey con Bette Davis. Le due hanno una relazione turbolenta per tutto il tempo della lavorazione, tanto che le loro interazioni sul set divennero una delle feuds più famose della storia dell'intrattenimento. La Davis definì la Dunaway "una delle persone meno professionali" con cui avesse mai lavorato e la descrisse come la persona peggiore con cui avesse mai avuto a che fare, aggiungendo quanto fosse "totalmente impossibile come persona" e "non collaborativa". L'altra, dal canto suo, negò le accuse e rispose dicendo che, guardando la veterana, tutto ciò cui si riusciva a pensare è che sembrava qualcuno sul punto di morire, un "ultimo urlo contro un destino sul quale nessuno ha il controllo". Oltre a questo, ribadisce di essere stata il solo obiettivo della sua cieca rabbia verso l'unico peccato che Hollywood non perdona mai alle sue donne: invecchiare.
Chiusa questa esperienza, dopo una lunga assenza dal tubo catodico, torna sul piccolo schermo nel 1981 nella miniserie Evita Peron e poi in Ellis Island - La porta dell'America del 1984, che le farà ottenere un Golden Globe per la miglior performance in un ruolo femminile non protagonista grazie al personaggio di Maud Charteris, un'attrice affascinante e mondana, molto frivola ma consapevole della propria leggerezza. Maud le permette di mostrare un lato più sofisticato, che il pubblico dimostra di apprezzare.
Nel 1985, è la Regina Isabella di Castiglia nello sceneggiato Cristoforo Colombo, diretta da Alberto Lattuada. Solenne e regale, interpreta la sovrana spagnola con autorevolezza e misura, aggiungendo prestigio alla produzione. Parallelamente, passa al giallo con Agatha Christie - 13 a tavola del 1985 e, in seguito apparirà anche in altri film tv e miniserie come La signora di Beverly Hills (1986) e Il veneziano - Vita e amori di Giacomo Casanova (1987), titoli in cui è diretta dal fidato Harvey Hart.
Nel 1989, recita nell'adattamento del romanzo "Cold Sassy Tree" di Olive Ann Burns, La straniera, dove veste i panni di Love Simpson Blakeslee, una donna indipendente e anticonformista, che scandalizza una cittadina del Sud degli Stati Uniti dei primi del Novecento, sposando un vedovo molto più anziano, a distanza di tre settimane dalla morte della moglie. Un personaggio centrale e inaspettatamente delicato, che le ha permesso di mostrare al pubblico una sfumatura un po' più tenera e umana, ad anni luce di distanza dal suo solito repertorio. Per essere perfetta, la Dunaway abbandona ogni traccia della sua rinomata freddezza e di quel distacco aristocratico che le si agita sempre intorno, offrendo una performance calda, affettuosa e vulnerabile in uno stile sobrio e misurato. Osannata per la naturalezza e la grazia con le quali ha trasformato un personaggio potenzialmente stereotipato in uno pieno di dignità, ma anche di insicurezze, umanizzandolo ed evitando giustamente ogni eccesso melodrammatico, in piena coerenza con il contesto storico e sociale del film, fa commuovere gli spettatori per l'autenticità e la dolcezza con le quali interagisce con il suo compagno di set, un giovanissimo Neil Patrick Harris. Indubbiamente, una delle sue prove televisive più toccanti.
Con l'arrivo degli Anni Novanta, si moltiplicano le sue apparizioni sul piccolo schermo. In particolar modo, fa parlare la sua partecipazione a un episodio della decima stagione di Colombo con Peter Falk (che era proprio lo sceneggiatore della puntata e che personalmente le propose di prendere parte alla serie). Siamo nel 1993 e la Dunaway ottiene un Emmy nella categoria della miglior guest actress in una serie drammatica. All'interno dell'episodio "It's All in the Game", l'attrice veste i panni di un'affascinante vedova coinvolta in un omicidio e che gioca con il tenente Colombo un duello psico-seduttivo. Ambigua e manipolatrice, contribuisce a creare uno degli episodi più amati dell'intera serie.
Altri importanti lavori televisivi che arricchiscono il suo curriculum sono Dietro il silenzio di mio figlio (1995), Una madre coraggiosa (1996) e La strada per Avonlea (1996), dove è una nobildonna inglese in visita ad Avonlea. Per sua stessa ammissione, proprio il personaggio di Lady Margaret Lloyd è uno di quelli che si è divertita di più a portare davanti all'obiettivo della cinepresa. Giocando coi cliché aristocratici e con una grande autoironia, la sua lady, snob ma affascinante, è anche dannatamente teatrale. Accolta con entusiasmo da critica e pubblico, offre una performance brillante, che sarà parzialmente oscurata solo nel 1998 con il film tv Gia - Una donna oltre ogni limite e da un Golden Globe come miglior attrice non protagonista (diviso con Camryn Manheim di The Practice - Professioni avvocati). Il ruolo, quello della potente agente che scopre Gia Carangi e la lancia nel mondo dell'alta moda, Wilhelmina Cooper, è relativamente breve, ma è una figura materna e professionale, che sembra rappresentare l'unico punto di stabilità nella vita della protagonista, interpretata da Angelina Jolie. L'attrice la restituisce sobriamente ma con autorevolezza, evitando prudentemente ogni eccesso e limitandosi a presentare un personaggio composto, che trasmette affetto e preoccupazione per la sua assistita. Lascia indubbiamente il segno, forse proprio per aver utilizzato questa compostezza come contrappunto alla turbolenza emotiva della Jolie, creando un ottimo equilibrio drammatico.
Dopo Lo specchio del destino (1998) di Karen Arthur, è l'ex amante del candidato alla Presidenza degli Stati Uniti in Tutte le donne del Presidente (2000), offrendo il ritratto di una donna matura ma decadente, sospesa tra autoironia e malinconia, ricevendo una nomination ai Golden Globe. Seguiranno piccole apparizioni fino al 2010 (Il tocco di un angelo, Alias, Il ritorno dei dinosauri, CSI - Scena del crimine, Pandemic - Il virus della marea, Grey's Anatomy, Nora Roberts - La palude della morte, Vite parallele).

Il debutto cinematografico
Notata dal produttore Sam Spiegel mentre era ancora a Broadway, Faye Dunaway firma un contratto di sei pellicole diretta da Otto Preminger (anche se poi decise di stracciare il contratto già dopo il primo film) ed esordisce cinematograficamente nel 1967 in E venne la notte al fianco di Michael Caine e Jane Fonda, nei panni di Lou McDowell, la moglie di un contadino del Sud degli States, cercando di dare spessore a un personaggio scritto in modo convenzionale. La sua recitazione fu però considerata estremamente rigida e poco naturale, forse anche a causa della direzione del regista, noto per il suo stile autoritario.

La prima candidatura all'Oscar
Spiegel intanto la inserirà anche nel cast di Cominciò per gioco... (1967) con Anthony Quinn, ma soprattutto la lasciò libera di proporsi per il ruolo di Bonnie Parker, la metà femminile della leggendaria coppia di criminali Bonnie & Clyde, in Gangster Story (1967) di Arthur Penn (con il quale aveva già cercato di lavorare in La caccia, venendo però scartata ai provini). Quello che nessuno si aspettava era che l'attrice portasse sullo schermo una rapinatrice sensuale e ribelle, lontana dalla figura stereotipata della femme fatale.
La scelta recitativa le fece ottenere prima un BAFTA come miglior attrice debuttante (condiviso assieme a E venne la notte) e poi una candidatura all'Oscar come miglior attrice protagonista. L'Academy, infatti, si innamorò della sua impersonificazione moderna, naturale e carismatica (perse ben quattordici chili per entrare nella parte), in perfetta sintonia con lo spirito della New Hollywood.
Uno sguardo enigmatico, anche nei momenti più violenti, che crearono un affascinante contrasto e che colpì critica e pubblico, permettendole di essere diretta da Norman Jewison nel famoso Il caso Thomas Crown (1968), nei panni di Vicki Anderson, l'astuta investigatrice assicurativa astuta. Lodata per carisma e controllo, l'attrice è indubbiamente magnetica e mette in scena un capolavoro di sottile erotismo (celebre la scena degli scacchi con Steve McQueen) giocato su sguardi e ambiguità. Totalmente diverso il personaggio dell'americana Julia, malata terminale che vive un'ultima storia d'amore in Italia, in Amanti (1968) di Vittorio De Sica. Intensa ma trattenuta, qui, alterna fragilità e desiderio di vivere. Sebbene il film sia stato criticato e non sia andato bene al botteghino, la sua interpretazione è stata apprezzata per la delicatezza emotiva e la presenza scenica.
Seguiranno Il capitano di lungo... sorso (1969) di John Frankenheimer con David Niven e Il compromesso (1969), diretta da Elia Kazan. Accanto a Kirk Douglas, la Dunaway diventa l'amante di un pubblicitario in crisi esistenziale, una donna libera, passionale e disillusa, usando uno stile asciutto e diretto, molto intenso e moderno, che si opponeva alla nevrosi del protagonista in un film denso e psicologicamente complesso. Non fu un grande successo commerciale, ma venne confermata la sua versatilità all'interno del genere drammatico.
Molto più divertente la sua performance in Il piccolo grande uomo (1970) con Dustin Hoffman, dove torna sotto l'occhio di Arthur Penn con la moglie di un reverendo puritano che si rivela ipocrita e repressa. Dopo una breve parentesi da moralista, infatti, il suo personaggio si trasforma in una prostituta (da Louise alla più lasciva Lulù), incarnando la doppia morale dell'epoca. Seppur in un ruolo secondario, lascia il segno. Ironica e seducente, con tocchi teatrali che ben si adattano al tono satirico del film e al ritratto grottesco e picaresco dell'America raccontata dal cineasta, l'attrice continua il suo percorso in pompa magna e diventa, nel 1970, l'ex modella in crisi psicologica Lou Andreas Sand (ispirata alla modella Anne St. Marie) in Mannequin - Frammenti di una donna. Siamo di fronte a una delle sue prove più complesse e sperimentali, dove esplora la fragilità della mente con una recitazione frammentata, quasi onirica. Il film fu poco compreso, ma oggi è considerato un cult minore del genere psicologico, rivalutando (per effetto) anche la sua performance oggi straordinaria e coraggiosa, anche se difficile da decifrare.
Inquadrata con Frank Langella dalla cinepresa di René Clément in Unico indizio: una sciarpa gialla (1971), appare in Doc (1971) e ne I duri di Oklahoma (1973) con George C. Scott, prima di diventare la mitica Milady de Winter in I tre moschettieri (1973) e Milady - I quattro moschettieri (1974), diretta entrambe le volte da Richard Lester. Non c'è dubbio che la Dunaway sia a proprio agio tra i pizzi e i corpetti di uno dei personaggi più celebri della letteratura dumasiana. La spia al servizio del Cardinale Richelieu è l'essenza stessa della malvagità glaciale, della perfida raffinatezza, una vera femme fatale d'epoca, che da intrigante cortigiana si trasformerà in una figura tragica, culminando in un epilogo drammatico.
Considerate uno dei punti di forza del dittico, la sua prova d'attrice e la sua presenza scenica vennero etichettate come "memorabili", tanto da oscurare in certi momenti gli altri membri dello stellare cast (Michael York, Oliver Reed, Raquel Welch, Christopher Lee, Geraldine Chaplin, Jean-Pierre Cassel, Richard Chamberlain e Charlton Heston). D'altronde, chi meglio di lei poteva alternare una freddezza aristocratica a una calda sensualità pericolosa?

La seconda candidatura all'Oscar
Chiusa l'esperienza di una delle sue interpretazioni più iconiche del cinema d'avventura, fa un provino per il ruolo che stava aspettando da tutta la vita: quello di Daisy Buchanan in Il grande Gatsby (1974), ma alla fine viene scartata in favore di Mia Farrow. Si rifarà ottenendo una nuova candidatura all'Oscar come miglior attrice protagonista nel capolavoro di Roman Polanski Chinatown (1974), vestendo i panni di Evelyn Mulwray, donna misteriosa con un passato traumatico. Una performance stratificata, anche qui sospesa tra vulnerabilità e freddezza e composta da sguardi distanti, una voce rotta e tanti silenzi. Acclamata dalla critica, la Dunaway ha costruito una delle sue migliori interpretazioni di sempre, seppur in un ambiente di lavoro pieno di scintille a causa dei continui scontri tra lei e il regista.
Accetta poi il ruolo secondario della fidanzata di un architetto (Paul Newman) nel catastrofico L'inferno di cristallo (1974) di John Guillermin, aggiungendo un tocco di umanità e romanticismo in un film corale ed epico. Nonostante non abbia un grande arco narrativo, il suo personaggio trasmette comunque tensione nei momenti di pericolo, tanto che alcuni critici sentenziano che avrebbe meritato molto più spazio.
Diretta con Robert Redford da Sydney Pollack in I tre giorni del Condor (1975) nei panni di Kathy Hale, una fotografa coinvolta suo malgrado in un intrigo della CIA, subisce le pesanti critiche al film, più per effetto della sceneggiatura poco realistica che per la sua recitazione. Il titolo, che oggi è un classico del thriller politico, non la mette in luce come dovrebbe e lei appare più funzionale alla trama che un personaggio realmente ben sviluppato. Senza contare che non si apprezza per niente il suo passaggio da ostaggio a complice romantica.

L'Oscar per Quinto potere
Considerata per il ruolo di Betsy in Taxi Driver di Martin Scorsese (che in seguito andò a Cybill Shepherd), scartò anche il ruolo che poi venne affidato a Karen Black in Complotto di famiglia (1976) di Alfred Hitchcock senza nemmeno leggere la sceneggiatura, pensando erroneamente che si trattasse di un film dove rapivano bambini. Accettò invece Quinto potere (1976) di Sidney Lumet che le fece ottenere il suo primo e unico (e tanto sognato) Oscar come miglior attrice protagonista, nonché un Golden Globe. Come scrisse un critico italiano "nel gran ballo dei cinici, la palma va a Faye Dunaway" nel ruolo di Diana Christensen, ambiziosa dirigente televisiva, simbolo della disumanizzazione del mondo dei media. Tagliente e provocatoria, anticipa figure femminili forti nel cinema che stava arrivando e riesce a rendere credibile il ritratto di una donna che sacrifica tutto per l'audience, senza mai cadere nella caricatura.
Nella seconda metà degli Anni Settanta, è diretta da Stuart Rosenberg nel corale La nave dei dannati (1976), come moglie del medico di bordo e passeggera ebrea in fuga dalla Germania nazista, dove si distingue per aver trasmesso dignità e paura a una donna in esilio, principalmente attraverso il suo volto, spesso silenzioso ma espressivo, che comunicava dolore senza bisogno di retorica.
Le viene offerto il ruolo che dà il titolo al film Giulia (1977), ma lei lo rifiuta, lasciando che la parte vada a Vanessa Redgrave (che vincerà un Oscar come miglior attrice non protagonista), scegliendo invece Occhi di Laura Mars (1978), dove è la fotografa di moda di fama internazionale, nota per i suoi scatti provocatori che mescolano glamour e violenza, ma che inizia ad avere visioni extrasensoriali di una serie di omicidi visti attraverso gli occhi del serial killer. Inquieta e distante, la Laura Mars della Dunaway riflette perfettamente il suo tormento interiore. Un risultato che è dovuto anche alla scelta dell'attrice di immergersi nel mondo della fotografia per calarsi meglio nel ruolo, frequentando il fotografo Terry O'Neill (che poi sposò) per comprenderne meglio tecniche e approcci visivi.
Accantonati glamour e paranoia, torna nelle mani di un regista italiano (Franco Zeffirelli) per Il campione (1979), dove è l'ex moglie di un pugile interpretato da Jon Voight e la madre del piccolo Rick Schroder. Mai come in questo caso avrebbe fatto meglio a rifiutare il ruolo. Zeffirelli è troppo melodrammatico e il film è mediocre. La Dunaway appare trattenuta, sottotono, quasi scollegata dallo stirato pathos del film. Cercherà di rimediare con il ruolo marginale della moglie (malata e ricoverata in ospedale) di un detective interpretato da Frank Sinatra in Delitti inutili (1980), dove cerca di trasmettere fragilità e dolore, passando però quasi inosservata.

Il camp Mammina cara
Nel 1981, arriva il film peggiore di tutti: Mammina cara, dove è la leggendaria attrice hollywoodiana e madre abusiva Joan Crawford. Sarà la prematura lapide sulla sua carriera. Con una performance grottesca, una mimica esasperata e toni urlanti, divide il pubblico. Per alcuni, è un cult, per altri una stroncatura. Lei vince il Razzie Award come peggior attrice per aver portato sulle scene una caricatura della grande diva (la scena No Wire Hangers è la più citata e ridicoleggiata). Non va meglio L'avventuriera perversa (1983), dove è una nobildonna del XVII secolo che si trasforma in una ladra mascherata per noia e desiderio di avventure. Anche qui decisamente sopra le righe e con una gestualità esagerata, la Dunaway rifila al pubblico un altro personaggio volutamente eccessivo, kitsch e mal diretto con il rischio di una nuova candidatura ai Razzie Awards.
Tenterà di stare lontano da questi film imbarazzanti e da una recitazione camp, nel senso meno lusinghiero del termine, ma dopo Prova d'innocenza (1984), ci ricasca accettando il ruolo da antagonista (la strega malvagia Selena che cerca di conquistare il mondo usando un artefatto alieno) in Supergirl - La ragazza d'acciaio (1984). Rifilando smorfie, risate malvagie e monologhi enfatici, supera decisamente il limite e con quel tono di recitazione da soap opera è decisamente fuori luogo.
Questi titoli, come una mannaia, amputano le sue possibilità di evoluzione. Viene sostituita da Julie Andrews nel ruolo di Stephanie in Duet for One (1986) ma, nel 1987, accetta la parte dell'alcolizzata compagna del protagonista Henry Chinaski (Mickey Rourke) in Barfly - Moscone da bar. Malgrado una candidatura ai Golden Globe, malgrado siamo di fronte a una donna brutale, tenera e disperata cesellata da una performance cruda e senza filtri che va in perfetta sintonia con l'universo di Bukowski, il salvataggio non riesce.

Il declino
Nel 1988, recita per Carlo Vanzina in La partita, accanto a Matthew Modine, Jennifer Beals, Federica Moro e Corinne Cléry, cercando di dare la massima prestanza figurativa, ma ormai incamminandosi verso ruoli secondari di veramente poca grandezza. Bruciante segreto (1988), In una notte di chiaro di luna (1989) di Lina Wertmüller, l'alienante parte di donna ricca e annoiata in Aspetta primavera, Bandini (1989) con Joe Mantegna, Il racconto dell'ancella (1990) di Volker Schlöndorff e Indagine allo specchio (1992) raccolgono tutte interpretazioni senza lode né biasimo.
Degna di nota è invece la sua eccentrica e malinconica Elaine in Il valzer del pesce freccia (1993) di Emir Kusturica, che sogna di costruire una macchina volante nel deserto dell'Arizona. Raramente, la Dunaway ha abbracciato così tanto surrealismo e così tanta poesia in un film, alternando momenti di buffa leggerezza a improvvisi slanci emotivi e rendendo Elaine una figura visionaria, intensamente libera anche nella sua stessa recitazione, avvolta nell'assurdo con grazia e malinconia. Ritroverà poi il suo compagno di set Johnny Depp in Don Juan de Marco - Maestro d'amore (1995), dove è la moglie di Marlon Brando, psichiatra che ha in cura proprio Johnny Depp, nel ruolo del giovane Don Juan. Qui, ha un personaggio decisamente più sobrio che, con pochi gesti e sguardi, riesce ad accogliere il risveglio emotivo che il marito vive grazie all'incontro con il suo paziente. Una presenza che, senza dubbio, aggiunge calore al titolo, offrendo un contrappunto realistico alle fantasie romantiche del protagonista.
Sprecata e svogliata in Maledetta ambizione (1993) di Tom Holland (ha il ruolo secondario di un dirigente d'azienda coinvolta in un thriller economico), non darà il meglio di sé neanche in Dunston - Licenza di ridere (1996) e in Insoliti criminali (1996), diretta dal collega Kevin Spacey, nel quale è una donna presa in ostaggio durante una rapina finita male. Appare stanca, spenta e poco coinvolta. Sembra quasi recitare in modo anonimo, privo di mordente e piatto, con l'attivazione del pilota automatico.
Andrà meglio con L'orgoglio di un figlio (1996), nel quale è la madre di un giovane omosessuale (Brendan Fraser) e di una donna incinta (una ritrovata Jennifer Beals). Questa signora borghese, rigida, profondamente condizionata da valori tradizionali e prigioniera dei propri pregiudizi, incapace di accettare pienamente l'identità del figlio, non la rimette in carreggiata, ma le fa comunque arrivare ancora degli elogi. La critica apprezza la sua capacità di rendere credibile un personaggio difficile e "dolorosamente umano", combattuto tra l'amore materno e la paura del giudizio sociale.
James Foley la vuole nel 1996 in L'ultimo appello, ma i critici, soprattutto quelli italiani, non guardano alla sua recitazione quanto al suo volto. Più interessati a scrivere quanto il suo viso sia rimasto "deturpato dai chirurghi estetici e dal tempo", non sprecano neanche due righe per analizzare il ruolo della sorella del condannato a morte interpretato da Gene Hackman, pur essendo una performance che, comunque, molto convincente.
Dopo Jack lo squartatore (1999), fa un elegante e ironico cameo in Gioco a due (1999) di John McTiernan, remake di Il caso Thomas Crown, effettuando un passaggio di testimone tra generazioni. Sarà poi una decadente Yolande d'Aragona, madre del Delfino di Francia, in un'altra breve apparizione in Giovanna d'Arco di Luc Besson. Se lo scopo è quello di conferire al personaggio una presenza solenne, contribuendo a dare spessore politico alla corte francese, anche se solo in un ruolo di contorno, la Dunaway è indubbiamente la scelta più autorevole e regale e, pertanto, vincente.
Rifiutato Requiem per un sogno (2000), la vediamo in altri piccoli ruoli in The Yards (2000) di James Gray e come madre di James Van Der Beek in Le regole dell'attrazione (2002) di Roger Avery. Deliberatamente grottesca e satirica come figura snob e disconnessa dalla realtà, incarna, in questo ultimo titolo, il vuoto affettivo del mondo adulto in un contesto cinico e postmoderno, che poi si lascia alle spalle perdendosi in pellicole spesso rimaste volutamente inedite in Italia.
Entrata nel cast de La rabbia di Louis Nero (2008) assieme a Tinto Brass, Giorgio Albertazzi, Philippe Leroy e Franco Nero (che poi la dirigerà personalmente in L'uomo che disegnò Dio), è sicuramente un "peso massimo" in un buon titolo, che emerge dalle mediocrità che l'ha preceduta e che verrà dopo, anche a causa di scelte sbagliate lavorative o da una salute non del tutto ottimale (come nel caso di Il condominio dei cuori infranti, dove viene sostituita da Isabelle Huppert per il ruolo di Jeanne Meyer). La si rivedrà nell'horror di serie B The Bye Bye Man (2016), dove è la vedova Redmon, ennesimo personaggio secondario ma cruciale, che svela le origini della maledizione legata al fantomatico Bye Bye Man. Bisogna ammettere che si adatta bene all'atmosfera cupa del film e che, seppur brevemente, conferisce una gravitas spettrale a tutto l'impianto narrativo, incarnando una figura segnata dalla consapevolezza del male.

Vita privata
Dopo una breve relazione con il comico Lenny Bruce e una più lunga con il regista Jerry Schatzberg, Faye Dunaway si lega sentimentalmente a Marcello Mastroianni, conosciuto sul set di Amanti. L'attrice è decisa a sposarlo e a diventare madre dei suoi futuri figli, ma l'attore italiano, che era ancora legalmente sposato con Flora Carabella, non riesce a superare l'idea di ferire la moglie con un divorzio e si rifiuta di fare i passi necessari perché i loro legame diventi un'unione vera e propria, anche andando contro i pareri positivi al matrimonio della figlia Barbara e del migliore amico Federico Fellini. La Dunaway decise quindi di lasciarlo, ammettendo di aver dato fin troppo a Mastroianni (nonostante le proteste del suo agente, aveva in effetti rifiutato molti progetti di alto profilo per trascorrere del tempo con lui). In seguito, ritornò sui suoi passi, ammettendo di rimpiangere amaramente l'allontanamento dal compagno. "Era una delle nostre fantasie invecchiare insieme. Pensavamo che saremmo stati come Spencer Tracy e Katharine Hepburn, un amore segreto per tutta la vita, privato, appartenente solo a noi due". Lo stesso Mastroianni, per sua stessa ammissione, dichiarò di non aver mai superato la rottura con la Dunaway. "Era la donna che amavo di più e mi dispiacerà per sempre di averla persa. Sono stato integro con lei per la prima volta nella mia vita".
Legatasi a Robert Altman nel 1972, interrompe questa frequentazione per Harris Yulin, che aveva conosciuto sul set di Doc, e per il produttore Andrew Braunsberg. Poi si sposa nel 1974 con il vocalist del gruppo rock The J. Geils Band Peter Wolf e rimane sua moglie fino al 1979. Fu durante questo periodo e per concentrarsi sulla sua vita matrimoniale che, sentendosi pressata dalle pretese lavorative, all'ultimo momento si ritirò da Il vento e il leone (1975), sviluppando anche una dipendenza dagli stupefacenti, che la costrinse ad affrontare un lungo cammino di disintossicazione.
Negli Anni Ottanta, si innamora del fotografo britannico Terry O'Neill, dal quale aspetta il suo primo figlio, l'attore Liam Dunaway O'Neill. Concluso anche questo matrimonio con un divorzio nel 1987, si lega prima a Frederick Forsyth, al Presidente della Warner Bros per la sezione Home Video Warren Lieberfarb, all'arpista Hook Herrera e poi al conduttore televisivo marocchino Bernard Montierl per tutti gli Anni Novanta. Anni in cui diventa la migliore amica di Sharon Stone.

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