Il fattore più sorprendente del cinema di Tarantino è la sua capacità di mettere in scena, con estrema e ammirabile originalità, delle tipologie di trame sostanzialmente vecchie e ormai standardizzate in 120 anni di vita della settima arte. La vicenda che ci presenta in questo suo ottavo lungometraggio è un retaggio e un mescolamento di strutture narrative e archetipi che già sono stati portati sul grande schermo in passato da altri registi, niente di così nuovo e sensazionale quindi se analizziamo la grammatica del film o se studiamo le strutture soggiacenti che ne plasmano la forma e danno vita ai contenuti. Ma questo suo ispirarsi a altre pellicole va oltre la citazione (e l’autocitazione) fine a se stessa, Tarantino infatti sa bene come utilizzare il cinema che più ama, sa rimescolare tra loro le varie situazioni e le singole trame, sfornando sempre un prodotto nuovo e dall’aspetto accattivante. Lo aveva fatto in passato e lo ha fatto ancora adesso in questo splendido western che va di diritto a collocarsi tra le più belle pellicole che abbia mai girato. Dopo "Pulp fiction" e "Bastardi senza gloria", il suo terzo capolavoro assoluto. Nel giocare a mescolare tra loro i vari ingredienti, Tarantino riesce a generare una creatura del tutto particolare, a fondare addirittura un nuovo genere, in questo caso un giallo western che menziona e usa molti aspetti di svariati film precedenti, dalle pellicole tratte dai libri di Agatha Christie a Hitchcock (a me in certi tratti ha fatto pensare a “I prigionieri dell’Oceano” , qualcuno penserà forse a “Nodo alla gola”), fino alle pellicole più propriamente affini al genere western, a questo proposito è doveroso citare anche Sergio Leone. In tutto questo poi c’è il suo tocco visivo che è specificamente e volutamente ‘pulp’, crudo, sanguinoso e quello letterario, con dialoghi lunghi, a tratti estranianti, forse addirittura surreali, ma graffianti e divertenti. Non manca infine una certa dose di autocompiacimento verso il finale che ci appare più prolisso del necessario e dove il regista insiste su un lessico decisamente e marcatamente cruento e folle, come a voler rimarcare la cifra stilistica che meglio lo caratterizza. Ciò che più si evince da “The hateful eight” è che Tarantino si diverte come un matto a fare cinema, attinge ispirazione dalle idee altrui e le mescola con le sue, con il proprio stile, con la propria fantasia e quello che ne viene fuori è un qualcosa di così personale che può appartenere solo a lui e in seguito al pubblico che lo vedrà. D’altra parte come diceva il genio di Picasso (frase che un altro genio, Steve Jobs, appese nel suo studio) “I bravi artisti copiano, i grandi rubano” .
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paulingthomas
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venerdì 29 gennaio 2016
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commento fantastico
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Complimenti per la tua recensione, hai reso merito al Maestro. Quoto tutto!
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michele
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martedì 2 febbraio 2016
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paulingthomas
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paolo stravalaci
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domenica 28 febbraio 2016
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non del tutto d'accordo
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Sono abbastanza d'accordo sulla tua recensione, tranne che su Bastardi senza Gloria, il quale a mio avviso non può essere assolutamente considerato un capolavoro. Io direi che Django è forse il lavoro migliore di Tarantino dopo Pulp Fiction, seguito appunto da questo straordinario film. Le Iene e Jackie Brown sono pellicole migliori di Bastardi senza Gloria, non c'è confronto.
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michele
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martedì 8 marzo 2016
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punti di vista
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Secondo me però Django non è altro che un 'Bastardi senza gloria' rifatto in salsa western. Un buon film, ma che ripete un po' troppo i meccanismi e le dinamiche narrative di quest'ultimo. In 'The hateful eight' invece è stato bravo a non ripetersi e a creare qualcosa di diverso
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