Gravity ambiva ad essere un'esperienza profonda, innovativa, coinvolgente e plurisensoriale. C'è qualche piano sequenza ben girato, qualche virtuosismo sull'assenza di gravità, un certo fascino figurativo. Ma poco più. A. Cuarón riesce nell'impresa di sbagliare quasi tutto, con un'opera votata ad un autocompiacimento tecnico ed estetico che sfiora il calligrafismo. La sceneggiatura, curata dal regista col figlio Jonás, è un capolavoro di banalità e pretestuosità. I personaggi sono schizzati frettolosamente, e ogni tentativo di approfondimento psicologico appare goffo, scontato, o insopportabilmente zuccheroso. G. Clooney fa lo spaccone e proferisce battute dozzinali a raffica. Più brava S. Bullock, che tuttavia ansima e piagnucola per la maggior parte del film. I pochi meriti della pellicola vanno ricercati nei settori strettamente tecnici: sono il maestoso impianto scenografico, la fotografia di E. Lubezki, il montaggio, il sonoro e soprattutto gli impressionanti effetti speciali, a rendere credibili le disavventure spaziali dei protagonisti. Più che i risvolti avventurosi e umani prevale la componente ansiogena, grazie ad una buona suspense, a volte tirata fino allo spasmo. Gli intenti pseudo-antropologici, mistici e filosofici falliscono miseramente; la colonna sonora, benché avvincente, suggerisce un'epicità che di fatto non c'è.
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