Il vero appassionato di Cinema, colui che in una settimana consuma mediamente dai 3 ai 7 film perché altrimenti va in astinenza, colui che reputa la settima arte come forma terapeutica (del tutto omeopatica) rispetto al quotidiano, colui che quando riesce a trovare tempo e modo di fruire di un’ opera come la presente rammenta quanto sia fortunato a godere di tale passione, quel colui può trovarsi in difficoltà al cospetto di Gravity (USA, UK, 2013) di Alfonso Cuarón e potrebbe far fatica a riordinare il groviglio di pensieri scaturito subito dopo averlo visto.
Orbita terrestre, 600 km di altitudine. Un team di 5 astronauti è alle prese con la missione STS157 che ha lo scopo di riparare ed aggiornare i pannelli elettronici del famoso telescopio Hubble. La dottoressa Ryan Stone, alla sua prima prova sul campo dopo soli sei mesi di addestramento, è guidata dal veterano Kowalsky, alla sua ultima passeggiata nel cosmo a soli 75 minuti dal record di permanenza nel vuoto detenuto da un illustre collega russo che non riuscirà a battere. Il primo piano sequenza dura oltre un quarto d’ ora e la camera, senza mai staccare, ruota in circolo attorno allo Space Shuttle inquadrando alternativamente i vari soggetti sospesi nel nulla in un turbinio di immagini sensazionali per le pupille più esigenti. La vista da lassù della Madre Terra è unica e la riproduzione fedele del telescopio ancorché delle sofisticate attrezzature scientifiche e delle tute spaziali ha dell’ incredibile: un imprinting del genere raramente è stato così efficace nel Cinema contemporaneo. Non si fa in tempo a terminare il lavoro perché parte da Houston (la cara, familiare ed irrinunciabile base della NASA) l' ordine di abortire immediatamente la missione per un imminente pericolo dato dal cumulo di detriti in avvicinamento a folle velocità sulla stessa orbita dell' Hubble e formatosi a seguito della involontaria distruzione di un satellite sovietico da parte di un missile della medesima potenza militare che ha determinato un effetto domino su altri satelliti artificiali. La repentina evacuazione viene subito interrotta dalla massa di frammenti che investe nave e telescopio, i quali in pochi attimi sono irreversibilmente danneggiati, oltre a provocare la morte su colpo di 3 astronauti, uno dei quali in modo atroce. La Stone perde il contatto con il cavo che la teneva ancorata e va alla deriva avvitandosi su se stessa. Disperata e sotto un comprensibile attacco di panico, la scienziata viene incitata e rassicurata via etere da Kowalsky il quale, dopo interminabili minuti, riesce rocambolescamente ad avvicinarla e riagganciarla grazie allo zaino a propulsione che solo lui ha in dotazione. I due cosmonauti, soli e senza appigli ed avendo oltretutto perso i contatti con Houston, cercano di raggiungere la “vicina” ISS, la Stazione Spaziale Internazionale, anch’ essa evacuata, danneggiata e distante decine di kilometri ma che rappresenta l’ unica ancora di sopravvivenza in un drammatico viaggio contro lo spazio, il tempo e la progressiva diminuzione di carburante e ossigeno.
Per il personaggio della biologa viene scelta Sandra Bullock, presentatasi sul set in una forma fisica invidiabile, corpo modellato, interprete di un ruolo double face ove prima recita con parsimonia e voluta fiacchezza al fianco del consumato e (fin troppo) istrionico George Clooney, poi in un crescendo costante arriva a mostrare il piglio della grande attrice scavando un solco tra lei e i personaggi femminili di pellicole sci-fi del passato, anche se preferisco classificare questa película più come space-drama o thriller “stellare”.
La super pagata interprete di Speed e Crash si cimenta in una difficile parte che si colloca a metà strada tra quella claustrofobica della leggendaria Ripley di Alien ed il metafisico Bowman di 2001: A Space Odyssey, in una lotta per la sopravvivenza che riconduce al Tom Hanks di Cast Away. La forza di quest’ opera, eseguita per tre quarti in CGI, sta proprio nella solitudine forzosa alla quale è costretta una ricercatrice che fino a pochi mesi prima lavorava in laboratori universitari dove “le cose cadono a terra” e dovendo oltretutto fare a pugni con un recente evento luttuoso avendo perso la figlia in un banale incidente scolastico. Lo scoramento e la sensazione di essere vicini alla fine scatenerà quella che presumibilmente può assimilarsi ad una inattesa forza spirituale o una più semplice reazione dell’ organismo rispetto alla volontà di sopravvivenza, tant’ è che la Stone ha un’ allucinazione nella quale l’ ormai scomparso Kowalsky, sacrificatosi per lei e scegliendo il cosmo come tomba, visto che non c’è più una signora Kowalsky ad attenderlo laggiù, gli suggerisce di utilizzare il modulo di salvataggio Sojuz (i russi tolgono, i russi restituiscono) come fosse in fase di ammarraggio usufruendo dei relativi propulsori. L’ intuizione è quella giusta e allora via verso lo step successivo rappresentato dalla stazione orbitante cinese, ultimo approdo prima del tentativo di rientro sulla Terra, con tanti ringraziamenti e preghiere rivolte alla povera primogenita che magari lassù, più vicina che mai, ha potuto aiutare la madre.
Il modulo di salvataggio ivi presente si chiama Shenzhou ed altri non è che un Sojuz replicato con scritte in cinese e quindi Ryan non avrà molte difficoltà ad avviarlo, iniziando un’ inesorabile ed incandescente caduta libera attraverso l’ atmosfera terrestre.
I giochi di luce fedelmente riprodotti grazie a migliaia di led, la tensione perenne, la paura trasmessa efficacemente, quel suono di esplosioni non propagabili nel vuoto, quella fotografia immaginifica, meritatamente premiata come tutto il resto del film, quelle musiche perfettamente allineate al contesto ed un montaggio del sonoro straordinario, quel ritmo incalzante che non ti fa annoiare nemmeno per un istante: questi aspetti consegnano all’ opera di Alfonso Cuarón i crismi del capolavoro.
E allora ritorno a quella prefazione nella quale volevo rimarcare l’ essere orgogliosamente cinefilo pur con sguardo critico ma non inutilmente dissacratorio, ritenendo che, in riferimento alle pretestuose e stucchevoli critiche sulla plausibilità scientifica di questo lavoro, un amante della pellicola non può o non dovrebbe nemmeno porsi il problema del sospendere l’ incredulità, semplicemente perché quando inizia un film occorrerebbe sospendere tutto quello che ci gira intorno.
Questo è un film di quelli che quando arriva ai titoli di coda vorresti subito rivederlo da capo, è una di quelle opere multiformi e totalizzanti che ti rapiscono e ti catapultano in un luogo spazio-tempo abbastanza definito dal quale vieni distolto solo a chiusura dell’ ultima riga di ringraziamenti da parte del regista.
Il regista messicano, ammirato a partire da quel meraviglioso Children of Men nel quale tutti abbiamo giustamente esaltato la sua tecnica registica, ha in quei suoi lunghi piani sequenza e nella qualità visiva un marchio di fabbrica, rinsaldato da un’ accorta e minuziosa ricostruzione scenografica degli esterni. Con Gravity non solo si conferma cineasta di culto ma ci lascia finalmente accorciare il confine che separa il comunque inarrivabile capolavoro di Kubrick del ’68 da tutto il resto, lasciando agli annali un’ odissea meno intimista e filosofica ma più vicina a noi, più ritmica, fatta di tensione e sublimazione tecnica. Nulla può esimermi dal consacrare Gravity come opera irrinunciabile e permanente, strepitosa avventura che fa riavvicinare alla vita protagonista e spettatore in una lotta fisica per quella sopravvivenza raggiunta quando la Bullock stringe tra le mani un pugno di soffice terra.
Voto: 9
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