Shame

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Un film di Steve McQueen (II). Con Michael Fassbender, Carey Mulligan, James Badge Dale, Nicole Beharie, Hannah Ware.
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Drammatico, durata 99 min. - Gran Bretagna 2011. - Bim Distribuzione uscita venerdì 13 gennaio 2012. - VM 14 - MYMONETRO Shame * * * - - valutazione media: 3,46 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

L'insostenibile prigione dell'essere Valutazione 4 stelle su cinque

di rototom


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mercoledì 18 gennaio 2012

 C’è una scena in Shame che riassume  il senso del film. Un orgasmo brutale, sofferto, durante un rapporto rabbioso con due prostitute che svuota Brandon trasfigurandolo in una maschera di vuoto orrore. Un teschio privato della linfa vitale e la consapevolezza di una prigionia senza tempo confinata nelle segrete di un’anima in disfacimento.  Shame è la storia di Brandon, belloccio trentenne in buona posizione sociale e in carriera ossessionato in maniera compulsiva dal sesso.  Brandon è Michael Fassbender, già coppa Volpi a Venezia, capace di trasformare in emozione ogni sguardo e ogni ruga del viso, straordinario interprete di un intimo dramma fatto di fratture e cicatrici, passato e futuro che si annullano perdendo senso nell’attimo sovrano dell’eiaculazione.

Una di queste fratture è il rapporto più che ambiguo con la sorella Sissy che proprio dal passato ritorna a far sanguinare vecchie ferite, una Carey Mulligan  emotivamente fragile, di una bellezza ipotetica e triste.
Brandon, come la sorella, è un prigioniero del proprio corpo, dal quale preme per uscire. L’ossessione isterica per l’atto sessuale non trae origine dal piacere che ne deriva, quanto dalla necessità vitale di “uscire” dal corpo stesso, perdere per un attimo fugace la realtà materiale e sciogliersi nel liquido seminale. I francesi l’orgasmo lo chiamano “la petite mort”, la piccola morte. Per Brandon la pulsione sessuale è una pulsione di morte. La sorella incapace di eiaculare, ha nel suicidio per dissanguamento un corrispettivo dello stesso isterico atteggiamento nei confronti del  proprio corpo.

Bellissimo film, durissimo e affilato come un bisturi, sfrontatamente antierotico, Shame  è l’opera seconda del video artista britannico Steve McQueen  che riassume sul corpo prosciugato e nervoso del suo protagonista il male di vivere dell’uomo contemporaneo narcisista ed emotivamente spento. Il regista opera chirurgicamente di sottrazione imbastendo un raggelante  incubo metropolitano dalla livida fotografia verdastra, metallica e riflettente come i muri, le vetrate e le superfici lisce e impersonali che circondano la vita di Brandon come una bara di cristallo.    L’estrema pulizia del quadro e delle linee fanno risaltare in modo drammatico i corpi liquefatti in un tempo dilatato, ipnotico e ripetitivo. I piani sequenza silenziosi si alternano a brusche accelerazioni di montaggio sui corpi ripresi in amplessi disperati, i latrati dei siti porno escono dal computer e spacciano fantasie in tutta la loro volgare falsità. Gli sguardi di Brandon sulla gente sono  vacui,  il senso di sprofondamento è tangibile come la necessità dell’autoannientamento definitivo del sé e la fuga. L’umanità descritta da McQueen è stordita e anaffettiva, figlia della società dei consumi  che brama ciò che vede, compra ciò che serve e lenisce la solitudine nell’autoaffermazione. Quello che rimane è il disprezzo, l’incapacità di provare empatia e la constatazione dell’esistenza nell’atto bestiale e meccanico della penetrazione.  La vita di Brandon è spasmodicamente fallocentrica, egli penetra con la disperazione dello sguardo prima che con il corpo, il pene inquadrato senza alcun pudore è lo scandaglio di Brandon verso l’abisso. Gli squarci lucidi delle finestre dei grattacieli lasciano assistere allo spettacolo metropolitano delle ombre fare del sesso, con la possibilità poi di replicarle a vantaggio, chissà, di qualcun altro.   Città- corpo New York, senza tempo, umorale e lubrica, sudicia e sensuale, fa da cassa armonica alla lentissima, straziante canzone interpretata da Carey Mulligan:  “New York, New York” , una disperata richiesta di aiuto per il dolore senza fine che striscia su quelle pareti riflettenti fino a coincidere perfettamente con l’ immagine del sé riflessa.    Non c’è speranza ne’ giudizio in McQueen, la vicenda di Brandon è astratta e blindata all’estetica sterilizzata che lo imprigiona, lo guida nell’umanità tribale metropolitana che fagocita e vomita follia scambiando gli spasmi orgasmici per una parvenza di vita. Non è solo, Brandon, l’ultima inquadratura lo conferma ma non lo salva.

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