Era atletico, è diventato monumentale: con la testa rasata, grande e grosso, lento nei movimenti, se non fosse alto e nero Forest Whitaker somiglierebbe a Marlon Brando nella parte del colonnello Kurtz pensoso e sanguinano in Apocalypse Now di Coppola Invece arriva alla Mostra di Venezia (e al festival di Deauville) per Mary, il film di Abel Ferrara nel quale recita un giornalista che deve realizzare un documentario sulla vita di Cristo, e che è assalito dai dubbi: se è già così difficile raccontare la verità presente, come si può raccontare un simile passato, come si fa a restare distante, obiettivo, non partigiano, a evitare i difetti peggiori dell'informazione contemporanea? La faccia dolce, gli occhi intelligenti e tristi, la bellissima voce lo rendono particolarmente adatto ai personaggi tormentati, appassionati, incerti: ma il
prossimo sarà Idi Amin Dada, il dittatore dell'Uganda feroce e folle, in The Last King of Scotland.
È nato in Texas, a Longview, figlio di un assicuratore e di una insegnante. Nel 1961, 44 anni fa. Pareva che la sua vocazione fosse lo sport (al college era campione di football americano), invece la voce tenorile lo avviò a studiare musica e recitazione all'Università di San Francisco. Ha interpretato assai bene molti film. Ha diretto, dopo il primo lavoro televisivo Strapped, due opere, tutte e due su problemi di donne nere o bianche, percepiti con grande finezza e sensibilità (Donne, Ricominciare a vivere). Ha prodotto Rabbia a Harlem e come produttore ha moltissimi progetti, spesso ispirati alle cause degli afroamericani o degli africani. Impossibile dimenticare la sua bravura e la sua dolcezza ne La moglie del soldato di Neil Jordan; in Bird di Clint Eastwood, nella parte del sassofonista Charlie Parker (premio al Festival di Cannes per il migliore attore). E in Ghost Dog di Jim Jarmusch: il killer che studia e applica le regole di comportamento di un antico samurai, che vive solo su un tetto fra libri e piccioni, che si fa uccidere, è un personaggio che nel suo percorso verso la morte propone con struggente malinconia la sua personale visione della Storia americana.
Gli è capitato a volte di venir condizionato dall'aspetto di gigante buono, ma ha saputo scegliere e condurre la propria carriera con abilità e lungimiranza: la prossima volta, con ogni probabilità, lo rivedremo come autore.
Da Lo Specchio, 3 settembre 2005