
Il ritratto sopra le righe di una star, dipinto da un mostro di bravura come John Malkovich, che vale da solo il film. Al cinema.
di Rudy Salvagnini
L’horror ha spesso e anche volentieri esplorato il mondo delle sette religiose o degli antichi riti pagani con tutto quello che ne consegue sia a livello drammatico-narrativo sia a livello di riflessioni sociali e anche metafisiche. Capostipite indiscusso e paradigma assoluto tutt’ora insuperato in questo ambito è il mirabile e spesso dimenticato The Wicker Man (1973) di Robin Hardy che si avvaleva di una tagliente e multistratificata sceneggiatura di Anthony Shaffer e metteva a confronto la fede semplice e determinata di un poliziotto cristiano con l’attraente e disinibito paganesimo guidato dal signore di un’isoletta al largo della Scozia, il Lord Summerisle interpretato con grande gusto e bravura da Christopher Lee, nel ruolo che forse più ha amato nella sua lunga carriera.
Ma non sono mancati titoli più recenti che hanno affrontato lo stesso argomento, come il celebrato Midsommar - Il villaggio dei dannati (guarda la video recensione) (2019) di Ari Aster, che molto deve a The Wicker Man. Per restare nell’ambito di quello che viene definito folk horror si può anche citare il pregevole Il signore del disordine (2023) che mette di nuovo a confronto cristianesimo e paganesimo. Restando sul tema delle sette deviate si può citare almeno Godless: The Eastfield Exorcism (2023) che racconta la deriva cospirazionale e complottista di coloro che rifiutano la scienza per aderire a dogmi a loro dire salvifici, un argomento che, come si vede bene, è molto di attualità.
Opus - Venera la tua stella, esordio nella regia di Mark Anthony Green, si inserisce in questo contesto mettendo al centro della narrazione la figura di Alfred Moretti, un famoso cantante pop che fa della sua improvvisa rentrée dopo trent’anni un evento mediatico-spirituale. L’attribuzione di un ruolo messianico a un cantante pop, sia pure con finalità e modalità diverse, risale anch’essa a un’epoca lontana nel poco ricordato, ma degno di recupero, Privilege (1967) di Peter Watkins nel quale la figura dell’idolo delle masse era più credibile perché interpretata da un vero cantante idolo delle masse come il Paul Jones dei Manfred Mann. Malkovich non ha questa qualità, ma ha quella di essere un ottimo attore, il che, in un film, è forse di importanza maggiore. Malkovich è infatti perfetto nel ruolo della suadente e anziana icona del pop dalla memoria lunga e vendicativa, non del tutto credibile come cantante di motivetti un po’ facili e poco carismatici, ma carismatico egli stesso, quale capo di una comunità adorante e dedita a riti curiosi e curiosamente metaforici come la spossante caccia alle perle nelle ostriche.
La struttura narrativa è lineare e punta molto sulla caratterizzazione del bizzarro e attempato cantante e del contesto in cui vive, circondato da persone che lo venerano e che vivono i precetti di una nuova religione dai dettami un po’ confusi e permeati da ragionamenti filosofici più che da dogmi. Una nuova religione di cui Moretti afferma di essere solo un devoto seguace, non l’ideatore. In questo caso, quindi, non c’è un riferimento ad antichi riti, come in The Wicker Man, ma l’elaborazione di nuove credenze e nuovi concetti che, nella loro fumosità (“Dio è uno stato temporaneo dell’essere” e così via), hanno una grande attrattiva verso chi sente un vuoto interiore per la mancanza di una fede - perdute quelle tradizionali - e farebbe di tutto per trovarne una, qualunque essa sia. Ma la differenza principale, giustificata e anzi resa necessaria dai tempi in cui viviamo, sta nella comunicazione, nella voglia di espandere il verbo. Il lord Summerisle di The Wicker Man è del tutto lieto, con la sua comunità, di starsene per conto proprio e di architettare trappole per catturare le prede necessarie ai propri scopi. Moretti cerca invece il consenso e la diffusione del credo che ha abbracciato e ha un piano tutto suo per ottenerli. Viene fatto anche, en passant, una sorta di richiamo a famose sette come quella del reverendo Jones, con l’accenno alla possibilità di un suicidio di massa: vicenda che ha ispirato più film, da Mangiati vivi! (1980) di Umberto Lenzi a The Sacrament (2013) di Ti West.
Ma il film resta un po’ semplice negli intendimenti, con una soluzione finale più furba che credibile. La riflessione sul potere della celebrità, sull’influenza dei nuovi mezzi di comunicazione e soprattutto sull’insopprimibile credulità della gente è interessante e comunque importante, e alla fine ciò che più resta del film, oltre alla volenterosa e intensa prova della protagonista Ayo Edebiri, è il ritratto sopra le righe dipinto da un mostro di bravura come John Malkovich, che al di là della credibilità o meno del suo personaggio, vale da solo il film.