Malgorzata Szumowska non ha paura di usare il cinema come mezzo per consegnare un messaggio al suo paese. Dal 29 maggio al cinema.
di Marianna Cappi
Malgorzata Szumowska non ha paura di usare il cinema come mezzo per consegnare un messaggio, e il destinatario di questo messaggio è prima di tutto il suo paese, la Polonia, passato attraverso trasformazioni politiche epocali eppure incapace di accettare il diritto al cambiamento quando si tratta di cambiamento di genere. Insieme al collaboratore di sempre, Michal Englert, sceneggiatore e direttore della fotografia, con Questa sono io Szumowska ha intrapreso un viaggio nel tempo e nella società per portare sullo schermo un tema che in quella parte di Europa è ancora controverso, se non apertamente osteggiato.
Dentro il personaggio di Aniela ci sono le storie di tutte le persone trans che i due registi hanno incontrato, moltissime delle quali sono coinvolte direttamente nel film (talvolta nel ruolo di personaggi cisgender). In un paese che nega loro i diritti fondamentali, l’esistenza stessa delle persone trans diventa un atto politico, come denuncia la scena nell’aula vuota del tribunale in cui il giudice rinfaccia alla protagonista del film di non esistere, dopo che i medici, in aggiunta, le hanno già consigliato di dissimulare in vari modi. Dire la verità, insomma, è ancora un problema, politicamente parlando. Non a caso il film fa scorrere su due binari paralleli la storia di Aniela e quella della Polonia, negli anni Settanta, Ottanta e Novanta: anni in cui il paese ha intrapreso un cammino verso la libertà, senza però ancora trovare il coraggio di completare la transizione.
Non esiste una legge sul riconoscimento dell'identità di genere, dunque non esistono protocolli medici standardizzati, il percorso è lasciato all'iniziativa individuale e alla disponibilità di specialisti privati e costosi, e le persone trans devono affrontare un lungo e umiliante processo giudiziario per modificare legalmente nome e genere sui documenti, per essere se stessi e non vivere nella menzogna e nell’inautenticità.
Nella volontà degli autori di farne un discorso per molti, a suo modo un film-manifesto, si spiegano molte caratteristiche formali del film, tra cui la scelta del melodramma, genere che fa perno sulla forza emotiva e sulla narrazione romanzesca, con l'obiettivo esplicito di coinvolgere lo spettatore; ma, dopo l’incursione satirica di Non cadrà più la neve, il duo Szumowska - Englert torna anche al realismo sociale, per raccontare una battaglia per la libertà personale e collettiva, evocata fin dal titolo originale, che cita gli uomini di ferro e di marmo di Andrzej Wajda, mitici racconti sull'ascesa del movimento operaio.
La cittadina in cui vive la famiglia di Aniela, tra pettegolezzi e sguardi in tralice, riflette anch’essa il clima sociale nazionale che è stato costruito intorno alla cultura LGBTQ+, tacciata di essere un’ideologia pericolosa, oggetto di campagne d’odio mediatico e di una pervasiva retorica transfobica alimentata dai partiti conservatori e dalla Chiesa cattolica. In questo contesto, vivere in un corpo che la società rifiuta di riconoscere significa lottare quotidianamente contro la piaga della discriminazione, dal lavoro alle cure sanitarie all’alloggio, e vivere in una condizione di estrema vulnerabilità e di pericolo.
Questa sono io racconta questa condizione riempiendo tutte le caselle, carcere compreso, ma lo fa con intensità e con tenerezza, illuminando tanto la resilienza di Aniela quanto il difficile percorso di accettazione da parte delle persone che ama. E non c’è dubbio che l’aspetto più emozionante del racconto riguardi la relazione con i figli e con l’ex moglie Izabela (interpretata inizialmente da Bogumila Bajor e poi dalla più nota Joanna Kulig di Cold War (guarda la video recensione)), la quale, nonostante la rabbia e il dolore, non può accusare Aniela di non essere stata un buon marito, né può esimersi dall’amarla ancora; e anche se la Polonia non riconosce le unioni tra persone dello stesso sesso, questa è forse la vittoria più intima e significativa della protagonista, che la strappa al fantasma della solitudine.
La coesistenza della fragilità del corpo e della forza dell’animo nel personaggio di Aniela, di cui si fa interprete totale l’androgina Malgorzata Hajewska-Krzysztofik, si rispecchia infine in una ricerca tonale generale del film, che buca il dramma con piccole infiltrazioni di ironia e leggerezza (si pensi al prologo iniziale, con il piccolo Andrzej che ruba il velo alle compagne di comunione, o alla sequenza del crollo della statua di Lenin, soppiantata dal manifesto di Pretty Woman, o ancora a come la stagione della vita in cui Aniela esplora la sua sessualità coincida con il suo ricovero presso un monastero) mantenendo uno sguardo sempre rispettoso e commosso nei confronti del suo personaggio principale. “In verità lei non esiste, signore”, afferma il giudice guardando in faccia Aniela. Gli risponde il film, con un discorso lungo 132 minuti.