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Questo capitalismo non muore più

di francesca meneghetti


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martedì 21 gennaio 2020

Esiste un genere cinematografico che possa definirsi operaista o anticapitalistico, così come esistono il genere storico, erotico, fantascientifico? Non mancano in effetti, in ambiente inglese, le narrazioni tese a denunciare i mali di quel sistema, “storicamente determinato” diceva Marx, che è incentrato su: iniziativa privata, ricerca incondizionata del profitto, sfruttamento della forza lavoro e delle risorse naturali. Si parte da “Tempi moderni”, del 1936, che contiene tutti i temi fondamentali (i ritmi disumani, l’alienazione, accentuata dalla catena di montaggio, la disoccupazione, le lotte sociali e quella individuale per la sopravvivenza), fino ad arrivare, attraverso il Free Cinema degli anni ’50 e attraverso quel gioiellino di Full Monty (1997) dell’era thatcheriana, all’ultimo film di Ken Loach.
Il regista non ha mai fatto mistero del suo orientamento politico e ideologico: dunque è “naturale” che prosegua la sua indagine sui mali generati del capitalismo, mettendo a fuoco i contorni di quel recente sistema di distribuzione dei prodotti che inizia con un clic davanti a un sito Internet e che si conclude molto, fin troppo, rapidamente con la consegna di un pacco a domicilio.
“Il resto – scrive Michele Serra - il resto è sempre strada: è fiumi di camion e di furgoni, è traffico, inquinamento, corrieri sottopagati che si stressano e stressano gli altri”.
Il protagonista de film è infatti Ricky, il quale, dopo vari lavori nell’edilizia che sono stati stroncati dalla produzione, tenta di avviare un’attività in franchising per la distribuzione di pacchi. Questo gli dà l’illusione di essere un padroncino: in realtà si avvia alla schiavitù. E lo scopre ben presto: non ha orari, non ha diritti, è condannato a correre in furgone senza soste (un mezzo comprato con i soldi di famiglia, dopo aver venduto l’utilitaria della moglie, costretta a così a sfiancanti viaggi e attese in bus per raggiungere gli anziani che segue a domicilio: è il suo lavoro Lo stress del padre e la sua scarsa disponibilità di tempo per moglie e figli hanno un effetto domino sulla stabilità familiare, ma Ricky, cocciutamente, non si arrende: deve sacrificarsi per essere “a working class hero “, come diceva John Lennon.
Da questo punto di vista, il film raggiunge il suo obiettivo, che si suppone essere quello di diffondere coscienza dei problemi: vedere “di che lacrime grondi e di che sangue” l’efficienza del sistema Amazon, e di quelli consimili, effettivamente rappresenta un pugno nello stomaco.
Solo che c’è un eccesso di determinismo nel film, non molto diverso da quello degli scrittori naturalisti francesi che affrontarono per primi la questione sociale: nella famiglia di Ricky, nonostante l’infinita dolcezza, la pazienza, l’autocontrollo della moglie Abby, tutto prende ad andare male, come se dal lavoro schiavistico del padre dipendessero tutti i guai, inclusa la ribellione adolescenziale del figlio, che brucia la scuola per dedicarsi alla Street Art, e le insicurezze della piccola Liza. Ora è certo che certi fasi critiche dei figli richiedono ai genitori nervi saldi e lucidità, ma non è detto che genitori in difficoltà siano la causa diretta e meccanica di queste crisi. Sorge allora il dubbio che Ken Loach sia, almeno qui, nichilista, più ancora che anticapitalista: segnato da un pessimismo senza speranza che gli preclude assolutamente un finale come quello di “Tempi moderni”, moderatamente aperto alla speranza.
In quest’ottica, il realismo (o neo-neorealismo del film) è qualcosa di più di una presa diretta sua realtà, di una rappresentazione oggettiva del vero. C’è un’accentuazione della negatività che aggiunge dell’altro: forse la disperazione, a fronte dell’incredibile resistenza e diffusione di un sistema che schiavizza molti, avviluppando le più remote periferie de mondo, a vantaggio di pochi, ma che gode ancora di buona salute: il capitalismo è proprio duro a morire. E la nostra umanità ne ha risentito.
Il fim è riuscito e merita attenzione.

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