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Nè Verga nè Dickens saprebbero raccontare la bolla del " lavoro fluido", del precariato travestito da lavoro autonomo 3.0 , meglio dello spietato Ken Loach di oggi.Dopo averci regalato lacrime e magoni con il sublime Daniel Blake ,che ci ha introdotti al mondo dei navigator e del sussidio di disoccupazione ( id est reddito di cittadinanza) , Ken ci presenta la realtà vera della Gig economy, quella dell' e-commerce che tutti ci attrae nel suo magico giro misterico. Belli gli acquisti on line, bello il fattorino che ci recapita l'agognato pacchetto, meno bello il sistema implacabile che strangola lentamente i " padroncini " che coi loro furgoni si incaricano delle consegne " temporizzate ". Il tutto calato nella viva lingua del paese prossimo extracomunitario e negli ambienti quotidiani del nuovo proletariato, cui una volta il regista guardava con speranza, penso a Terra e Libertà, o con disincanto mentre ora con il suo occhio lucido, la fotografia asciutta, la sceneggiatura tagliata con l'accetta, non riserva agli ultimi alcuna pietà.E' il neo realismo degli anni duemila, l'amara verità che nessuno di coloro che insieme a noi stasera ha visto il film davvero conosce, e non fa sconti , prendere o lasciare. Noi, con le lacrime mandate indietro, guardando la piccola Mary Jane cercare di fermare il maledetto furgone del papà, abbiamo preso carico di questa immane sofferenza.Ken é bravissimo ma il dolore che induce in noi non ci permette di lodarlo come vorremmo o forse é questo guardare al dolore con lucidità che ce lo fa amare....
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antonio montefalcone
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mercoledì 8 gennaio 2020
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loach e i ceti sociali più poveri e disagiati
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L'ultima pellicola di Ken Loach è uno spaccato familiare che descrive ancora una volta il dramma del lavoro precario di oggi e col solito lodevole impegno civile tipico del suo cinema e del suo stile realistico, sincero e diretto, trasforma la sua opera in una forte denuncia sociale contro profitto e multinazionali. E, come in ogni suo film, il microcosmo familiare è la lente per osservare meglio le derive della società inglese e di quella globale. Con una messinscena 'naturalistica' che riverbera la fragile umanità delle persone in difficoltà, le atmosfere tese e tormentate delle loro esistenze, il film sa indignare ed emozionare lo spettatore. L'interessante, compatto e solido script (sul maggior sfruttamento del lavoratore e totale assenza di garanzie nei confronti dello stesso) e le interpretazioni verosimili degli attori, ci spingono inoltre a riflettere sul valore della famiglia e della dignità individuale, superiori a qualsiasi legge del mercato e del denaro.
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L'ultima pellicola di Ken Loach è uno spaccato familiare che descrive ancora una volta il dramma del lavoro precario di oggi e col solito lodevole impegno civile tipico del suo cinema e del suo stile realistico, sincero e diretto, trasforma la sua opera in una forte denuncia sociale contro profitto e multinazionali. E, come in ogni suo film, il microcosmo familiare è la lente per osservare meglio le derive della società inglese e di quella globale. Con una messinscena 'naturalistica' che riverbera la fragile umanità delle persone in difficoltà, le atmosfere tese e tormentate delle loro esistenze, il film sa indignare ed emozionare lo spettatore. L'interessante, compatto e solido script (sul maggior sfruttamento del lavoratore e totale assenza di garanzie nei confronti dello stesso) e le interpretazioni verosimili degli attori, ci spingono inoltre a riflettere sul valore della famiglia e della dignità individuale, superiori a qualsiasi legge del mercato e del denaro. L'equità e il rispetto altrui devono essere riportati al primo posto. Questo messaggio, semplice e risolutivo, viene trasmesso con efficacia dall'opera. Un dramma essenziale, preciso ed equilibrato in sé (stavolta pure con meno didascalismi e schematismi di un tempo), che coinvolge nella sua onestà, sensibilità e nella conoscenza della realtà che racconta.
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