flyanto
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lunedì 24 febbraio 2014
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la prigionia e le violenze subite da un uomo di co
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Film in cui si racconta di un uomo nero che intorno alla metà dell'Ottocento da persona libera e molto apprezzata come violinista viene fatto prigioniero per 12 anni passando da un padrone all'altro e subendo, come ai quei tempi era la consuetudine per le persone di colore ridotte in schiavitù, ogni sorta di violenza fisica e morale. Dopo ciò riuscirà finalmente ad ottenere di nuovo la tanto agognata libertà e ritornare in seno alla propria famiglia.
Questa pellicola, che costituisce l'ultima opera del regista inglese Steve Mc Queen, trae spunto direttamente da un fatto realmente accaduto nel secolo scorso ad un uomo di colore il quale poi lo rese pubblico in un libro di memorie.
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Film in cui si racconta di un uomo nero che intorno alla metà dell'Ottocento da persona libera e molto apprezzata come violinista viene fatto prigioniero per 12 anni passando da un padrone all'altro e subendo, come ai quei tempi era la consuetudine per le persone di colore ridotte in schiavitù, ogni sorta di violenza fisica e morale. Dopo ciò riuscirà finalmente ad ottenere di nuovo la tanto agognata libertà e ritornare in seno alla propria famiglia.
Questa pellicola, che costituisce l'ultima opera del regista inglese Steve Mc Queen, trae spunto direttamente da un fatto realmente accaduto nel secolo scorso ad un uomo di colore il quale poi lo rese pubblico in un libro di memorie. Essa è candidata a nove premi Oscar ma, a mio modesto parere, è notevolmente sopravalutata in quanto non presenta alcuna originalità nè particolare eccellenza o caratteristica affinchè le suddette nominations siano giustificate. L'opera in generale si presenta come una banale storia di schiavitù riguardante le popolazioni di colore in continente americano, con violenze annesse di ogni sorta, senza però discostarsi dalle produzioni che l'hanno preceduta. Anzi, ne ricalca l'andamento senza apportare nulla di nuovo od interessante al tema delicato trattato e per giunta, conoscendo anche i films di più grande elevatura che il regista ha girato in passato ("Hunger" e Shame"), questa cade nell'ovvietà più assoluta, facendo quasi apprezzare e preferire molte produzioni precedenti. Se l'intento di Mc Queen era solo quello di raccontare il tragico passato nonchè difficile e non sempre certo riscatto della propria gente (si rammenti che egli è un uomo di colore), non si giustifica però affatto tutto il plauso che vuole l'opera candidata a ben nove statuette! Infatti, a parte la tematica già trita e ritrita, il film non giustifica nemmeno l'encomio (con conseguente nomination) per la recitazione degli attori, in generale tutti bravi, ma che non spiccano in eccelse performancers. Lo stesso attore feticcio di Mc Queen, Michael Fassbender, per esempio, qui non si distingue e non dimostra le alte qualità che invece si erano evidenziate nei due films sopra citati del regista e da lui interpretati. Lo stesso discorso vale per gli altri attori, di contorno o meno, compresi Paul Giammatti e Brad Pitt, per citare solo i più conosciuti.
Inoltre, le riprese dell'intera pellicola, sebbene ben fatte non presentano però alcuna particolare qualità per ciò che concerne la fotografia od i piani sequenza riducendo le immagini simili a quelle di uno sceneggiato televisivo, ben costruito ma per nulla eclatante.
I dialoghi, poi, risultano dotati di una sceneggiatura parecchio verbosa e pertanto poco scorrevole e dunque prolissa che contribuisce all'appesantimento dell'intera pellicola, reso ancor più tale dall'eccessiva durata (134 minuti, decisamente troppi).
Insomma, ripeto, "12 anni schiavo" non si presentasse con così tante ed alte aspettative sarebbe sicuramente soggetto a meno e minori stroncature, ma proponendosi come quasi un capolavoro, sinceramente non mantiene affatto le promesse, deludendo assai o, per lo meno, chi possiede un benchè minimo senso critico.
In conclusione, nulla di aggiunto al vasto panorama cinematografico.
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[+] interessante denuncia sociale, ma non capolavoro.
(di antonio montefalcone)
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phantopera
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domenica 23 febbraio 2014
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great
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no_data
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domenica 23 febbraio 2014
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sopravvalutato
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sono rimasta fortemente delusa
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babis
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domenica 23 febbraio 2014
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12 anni schiavo
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Solomon Northop è un uomo di colore, che vive a Saratoga: si guadagna da vivere suonando il violino in alcuni spettacoli, e mantenendo la famiglia in maniera decorosa. Dopo avere fatto amicizia con due all'apparenza impresari, viene da loro venduto come schiavo e per 12 anni passa attraverso varie piantagioni sperimentando l'orrore della perdita di libertà, lui uomo libero, e maltrattamenti indicibili sul corpo e nello spirito.
Il film scorre velocemente, senza mai allentare la trama, anzi, conduce lo spettatore davanti a scene violente e brutali, mai fine a se stesse,ma molto efficaci, commuove e fa riflettere su quello che è stato. Vavvero magnifica poi l'interpretazione dell'antagonista: consigliatissimo.
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micio1985
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sabato 22 febbraio 2014
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bel film ma pesante!
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Devo dire che sono uscito dal cinema piuttosto perplesso e amareggiato.Perplesso perchè pur consapevole di aver visto un bel film non mi sentivo pienamente soddisfatto,e amareggiato probabilmente perché le candidature all oscar, la pubblicità e la stima che ho per brad pitt avevano creato in me una grossa aspettativa.La storia è commovente,e le interpretazioni di alcuni attori oltre a quella del protagonista sono straordinarie,tutte inserite peró in un contesto lento, pesante, a tratti ripetitivo.Ho letto molti commenti positivi ma sinceramente non riesco a condividerli affato, è vero che si affronta un tema delicato e storicamente importante ma i ritmi sono pessimi, le idee scarse e disordinate,molto discutibile anche la scelta di alcune inquadrature interminabili.
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Devo dire che sono uscito dal cinema piuttosto perplesso e amareggiato.Perplesso perchè pur consapevole di aver visto un bel film non mi sentivo pienamente soddisfatto,e amareggiato probabilmente perché le candidature all oscar, la pubblicità e la stima che ho per brad pitt avevano creato in me una grossa aspettativa.La storia è commovente,e le interpretazioni di alcuni attori oltre a quella del protagonista sono straordinarie,tutte inserite peró in un contesto lento, pesante, a tratti ripetitivo.Ho letto molti commenti positivi ma sinceramente non riesco a condividerli affato, è vero che si affronta un tema delicato e storicamente importante ma i ritmi sono pessimi, le idee scarse e disordinate,molto discutibile anche la scelta di alcune inquadrature interminabili.Il finale mi è sembrato come improvvisato per mancanza di tempo..compare dal nulla brad pitt che sembra l'unica persona con un po di umanitá che decide di aiutare lo schiavo ed ecco che poco dopo è di nuovo a casa..ora capisco che il film è tratto da una storia vera ma insomma è sempre un film e un pizzico di fantasia in più non guastava di certo.Il succo del mio pensiero è questo:c erano le basi x essere un grande film ma anche se mi dispiace ammetterlo..mi sono un pó annoiato
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enabram tain
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sabato 22 febbraio 2014
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storia vera, oscar certo (?)
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La storia ha le classiche "lacune" delle storie vere e i classici pregi delle storie vere. Sapere che quello che si vede è accaduto ha un effetto di coinvolgimento morale e sentimentale sicuramente potente e ovviamente porta a riflettere, ma come quasi sempre accade con le storie vere non riesce a stimolare pienamente la parte meno nobile ma più entusiasmante del cervello che è invece attivata da sceneggiature di fantasia (e di qualità).
Bravo il regista, ma senza lampi di genio, bravi gli attori ma senza picchi di eccellenza.
Un buon film, lo stereotipo perfetto del vincitore (quasi sempre) di oscar: storia vera, regista profondo, dramma toccante, tanti attori di grande nome e emergenti con buona interpretazione, non ho ancora visto gli altri film in corsa per l'oscar ma sono quasi certo che l' accademy non si lascera sfuggire questo modello del suo gusto, gusto che ha portato spesso a non far vincere veramente il migliore.
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La storia ha le classiche "lacune" delle storie vere e i classici pregi delle storie vere. Sapere che quello che si vede è accaduto ha un effetto di coinvolgimento morale e sentimentale sicuramente potente e ovviamente porta a riflettere, ma come quasi sempre accade con le storie vere non riesce a stimolare pienamente la parte meno nobile ma più entusiasmante del cervello che è invece attivata da sceneggiature di fantasia (e di qualità).
Bravo il regista, ma senza lampi di genio, bravi gli attori ma senza picchi di eccellenza.
Un buon film, lo stereotipo perfetto del vincitore (quasi sempre) di oscar: storia vera, regista profondo, dramma toccante, tanti attori di grande nome e emergenti con buona interpretazione, non ho ancora visto gli altri film in corsa per l'oscar ma sono quasi certo che l' accademy non si lascera sfuggire questo modello del suo gusto, gusto che ha portato spesso a non far vincere veramente il migliore.
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germano f.
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sabato 22 febbraio 2014
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un mcqueen un po' lontyano
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Nel 1841 un uomo di colore di New York viene ingannato, rapito e venduto come schiavo nel sud degli Stati Uniti. Rimarrà in questa condizione per 12 anni, fra abusi, torture psicologiche e fisiche, violenze, paure, aberrazioni. Solo il fortuito incontro con un abolizionista canadese riuscirà a riportarlo a riabbracciare la libertà e la propria famiglia. La storia di Solomon Northup è, in apparenza, abbastanza lineare, ma nasconde una sottotraccia metaforica e, ancor di più, psicologica intensa e complessa. Il talentuoso regista inglese Steve McQueen gestice la narrazione con la bravura che ormai tutti gli riconoscono, ma a volte non riesce a dare profondità introspettiva ai propri personaggi.
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Nel 1841 un uomo di colore di New York viene ingannato, rapito e venduto come schiavo nel sud degli Stati Uniti. Rimarrà in questa condizione per 12 anni, fra abusi, torture psicologiche e fisiche, violenze, paure, aberrazioni. Solo il fortuito incontro con un abolizionista canadese riuscirà a riportarlo a riabbracciare la libertà e la propria famiglia. La storia di Solomon Northup è, in apparenza, abbastanza lineare, ma nasconde una sottotraccia metaforica e, ancor di più, psicologica intensa e complessa. Il talentuoso regista inglese Steve McQueen gestice la narrazione con la bravura che ormai tutti gli riconoscono, ma a volte non riesce a dare profondità introspettiva ai propri personaggi. A partire proprio dal protagonista, ma anche per le parti secondarie, i caratteri appaiono incerti e inconsciamente ambigui. Solomon, interpretato da un pur bravo Chiwetel Ejiofor, nel film ondeggia tra sottomissione ed improvvisi tentativi di rivolta, tra accettazione della propria condizione di schiavo e banali tentativi di fuga, tra rassegnazione e incrollabile voglia di vivere e non solo"...di sopravvivere".Forse, o meglio, sicuramente, non era facile riuscire a districare un periodo così lungo di schiavitù e l'abbruttimento ad esso inevitabilmente connesso, in poco più di due ore di opera. Non era semplice condensare l'alto valore metaforico che ogni singolo episodio della vita di quest'uomo può dare, con i dettami commerciali imposti dalla moderna industria cinematografica. Ma indirettamente il paragone con "Hunger", l'opera prima di McQueen, viene spontaneo. La storia di Bobby Sands veniva là raccontata con una profondità introspettiva ineguagliabile e il dialogo tra il detentuto e il prete (vero centro nervoso del film) davano valore e riflessione alla scelta di Sands : i silenzi erano come rumore carico di significato. "12 anni schiavo" non ritrova questi sbocchi. Il regista sembra concentrarsi più sugli atti di violenza gratuita, sulle grida di terrore e di dolore, sulle distorte e compulsive degenerazioni dei padroni-schiavisti Epps e signora (un duo quasi da film d'orrore), sull'impossibilità di fuggire alla paura. Questo non vuol dire che il film non viva di profondi momenti di lirismo : il paesaggio della Louisiana che scorre davanti ai nostri occhi è insieme potente e indifferente alle brutture degli uomini (forte assonanza con alcune delle ultime opere di Malick); i primi minuti, e in particolare, l'incontro sessuale tra i due schiavi nella calca della baracca comune (profondo e disincantato); la fotografia della prigione in cui è rinchiuso Solomon a Washington con sullo sfondo un Campidoglio insensibile ed appannato (simbolo di un potere imperiale ed economico che si fonda sulla privazione e sulla violenza); la presa di coscienza del protagonista della propria condizione di uomo di colore cantando il bellissimo brano gospel "Roll Jordan Roll". E soprattutto la scena dell'impiccagione di Solomon, con quell'apatia così terrorizzata e terrorizzante, che la fa immediatamente divenire simbolo e metafora più dei nostri giorni che di tempi passati. Gli attori si dimostrano tutti capaci e affidabili. In particolare sono da sottolineare le prove di Sarah Paulson (nella parte di Mary Epps) e di Paul Dano ( nella parte di del mastro carpentiere vigliacco e crudele John Tibeats). Ovviamente non bisogna scordarsi Michael Fassbender, perfetto in un ruolo (quello di Edwin Epps) che lui governa con agio e maestria. Ma chi sorprende più di tutti è sicuramnte Lupita Nyong'o nel ruolo della schiava Patsey : la sua prova nella scena del palo e della frusta è determinante e scuote definitivamente il film portandolo al culmine. Qui McQueen rispolvera il suo miglior arsenale con un lungo, preciso e terrificante piano-sequenza. Rimane poco da dire : il finale è sicuramente un po' melenso e di chiara matrice hollywwodiana, ma è comunque un buon film, forse un po' didascalico, ma dal forte impatto emotivo ed educativo. Da McQueen ci si aspettava tutti un po' di più. Ma forse è lui che ci ha abituati troppo bene.
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eugenio
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venerdì 21 febbraio 2014
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mc queen e la schiavitù
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12 anni schiavo di Steve Mc Queen è un film di grande spessore emotivo che ha per tema la condizione della schiavitù dei neri d'America. Ambientato nella metà dell’1800 il film si ispira alla storia vera del musicista di colore Solomon Northup. Uomo libero con una moglie fedele e con una famiglia alle spalle, Solomon è il prototipo dell’uomo “raggiunto”: ha una donna che ama, una felice famiglia e una professione dignitosa che gli consente di vivere agiatamente rispettato da tutti. La storia della vita “qualunque” di un uomo dello stato di New York si interrompe bruscamente strappandolo agli affetti nativi: ingannato da finti procacciatori per un ancora più finta collaborazione musicale, Solomon viene “venduto”, esatto venduto come una merce, come un oggetto senza’anima, un giocattolo atto solo ai lavori forzati a un ricco quanto cinico e spietato proprietario terriero nella Louisiana schiavista delle piantagioni di cotone pre guerra di secessione.
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12 anni schiavo di Steve Mc Queen è un film di grande spessore emotivo che ha per tema la condizione della schiavitù dei neri d'America. Ambientato nella metà dell’1800 il film si ispira alla storia vera del musicista di colore Solomon Northup. Uomo libero con una moglie fedele e con una famiglia alle spalle, Solomon è il prototipo dell’uomo “raggiunto”: ha una donna che ama, una felice famiglia e una professione dignitosa che gli consente di vivere agiatamente rispettato da tutti. La storia della vita “qualunque” di un uomo dello stato di New York si interrompe bruscamente strappandolo agli affetti nativi: ingannato da finti procacciatori per un ancora più finta collaborazione musicale, Solomon viene “venduto”, esatto venduto come una merce, come un oggetto senza’anima, un giocattolo atto solo ai lavori forzati a un ricco quanto cinico e spietato proprietario terriero nella Louisiana schiavista delle piantagioni di cotone pre guerra di secessione.
L’incubo dura dodici lunghissimi anni durante i quali, conosciuta la tragedia del dolore, della fatica,delle pene,dell’orrore umano, il coraggioso ex-musicista tenterà di mantenere quella parvenza umana massacrata,derisa,umiliata ma mai spenta,sopita soltanto sotto una coltre indicibile di cicatrici segnate dai colpi di frusta sulla schiena. L’incontro causale con un abolizionista canadese, deus ex machina salvifico, renderà ragione della codardia vigliacca e debole della “razza bianca” restituendolo alla sua vita (mai più come prima) iniziale. Sarà solo l’ inizio di una lotta, un’emancipazione contro la degenerazione umana che si trasformerà in guerra civile fino all’abolizione della schiavitù dei neri d’America con il famoso tredicesimo emendamento ad opera dell’illuminato quanto controverso Lincoln.
Lincoln appunto. Era lui il protagonista del precedente film di Spielberg, didascalico e sicuramente storicamente attendibile che il regista Mc Queen adombra a modello per realizzare l’(ennesima) pelicola sulla schiavitù, sulla delicata mannaia dello schiavismo che ha macchiato per sempre l’irreprensibilità del popolo americano. Nel Post Obama stanno abbondano le pellicole aventi come soggetto la condizione di uno schiavo e il predominio della razza bianca su popoli deboli e vittime di un orrore senza fine quali possono essere i diversi, i non belli, gli ambigui. Tarantino lo aveva fatto in Django, Lee Daniels l’ha (parzialmente) ripreso in The Butler, Mc Queenne effettua una lettura silente, passiva, non gotica o da grand guignol piuttosto castigatrice ma non per questo priva di scene forti. Come Django anche Solomon subisce la mano “pesante” dell’uomo, sperimenta sulla sua pelle, anche con l’orrore dell’impotenza, il peso della colpa della sua condizione di nigger senza castigare,senza propositi di vendetta privo anche di quella loquacità tzigana tipicamente tarantiniana. Solomon è un osservatore passivo i cui occhi sono specchio di un orrore di una generazione condannata all’assurda e bieca disumanizzazione. E forse questo fa ancora più male del combattimento tra i nigger visto in Django, scuote la coscienza dello spettatore con schiene colme di cicatrici dell’anima mai purtroppo risanate.
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no_data
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venerdì 21 febbraio 2014
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religiosità, corporalità e sadismo schiavista.
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Torna al cinema il sorprendente regista Steve McQueen, che dopo alcuni importanti cortometraggi ha esordito nel 2008 con «Hunger», un lungometraggio sulle condizioni dei detenuti politici nell’Irlanda del nord, e nel 2011 ha stupito gli appassionati con il capolavoro «Shame». Con questi lavori il regista ha destato l’attenzione dei cinefili, divenendo fin da subito uno dei cineasti più amati del circuito del cinema d’autore. Il “club dei cinefili”, si sa, tende a essere particolarmente geloso dei propri autori; ma credo sia il caso di non farsi condizionare dai fin troppi pregiudizi che hanno accompagnato l’uscita di «12 anni schiavo».
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Torna al cinema il sorprendente regista Steve McQueen, che dopo alcuni importanti cortometraggi ha esordito nel 2008 con «Hunger», un lungometraggio sulle condizioni dei detenuti politici nell’Irlanda del nord, e nel 2011 ha stupito gli appassionati con il capolavoro «Shame». Con questi lavori il regista ha destato l’attenzione dei cinefili, divenendo fin da subito uno dei cineasti più amati del circuito del cinema d’autore. Il “club dei cinefili”, si sa, tende a essere particolarmente geloso dei propri autori; ma credo sia il caso di non farsi condizionare dai fin troppi pregiudizi che hanno accompagnato l’uscita di «12 anni schiavo».
Steve McQueen strizza l’occhio a Hollywood, è vero, ma lo fa realizzando un film che probabilmente allarga il target di spettatori a cui invece erano destinati i primi due lavori. Ma è necessariamente un male? Il regista non realizza un film commerciale, infatti mantiene i tratti peculiari della sua precedente produzione: non c’è mai nulla di scontato, di sottinteso o in sospeso, non lascia nulla all’immaginazione. L’inquadratura è sempre cruda, reale, con una grandissima attenzione alla corporalità, che è il tratto distintivo del promettente regista. In una narrazione che si alterna tra (molto) presente e (qualche) flashback, McQueen concede largo spazio al sadismo e alla follia della società schiavista degli Stati Uniti di metà Ottocento. In una serie di inquadrature, per esempio, mostra diversi schiavi negri che portano sui corpi e sui visi le cicatrici e i segni della violenza; poi a un certo appunto l’inquadratura ferma su un anziano, nero, barba e capelli brizzolati, che sembra trattenere un sorriso bonario. Il viso è pulito, lo spettatore (in forza di quel “montaggio per attrazioni” teorizzato da Eisenstein) è portato a cercare gli sfregi. Poi si rende conto che in realtà all’uomo manca una mano, è monco, ma ormai l’inquadratura è cambiata: se il viso è esente da cicatrici, lo stesso non si può dire del corpo. L’idea di mutilazione fisica accompagna quella della libertà.
Il film è interamente ambientato in esterni; eppure non si scorge mai la presenza di uno spazio aperto, c’è sempre qualcosa che delimita lo spazio visivo, il grandangolo è mutilato come i personaggi del film; da questo traspare il senso di prigionia e di soffocamento che il protagonista vive. Là dove c’è un campo di cotone, v’è uno schiavista armato di frusta che ‘taglia’ l’orizzonte. I campi di canna da zucchero non sono mai inquadrati nella loro immensità, ma sempre dal basso, rendendo così opprimente anche il più arioso degli ambienti esterni.
Come al solito Fassbender (vero e proprio pigmalione di McQueen) si lascia andare a una interpretazione straordinaria. Stupefacente il protagonista (un sorprendente Chiwetel Ejiofor); buone le prove dei comprimari, da Chiwetel Ejiofor (War Horse, Espiazione, la serie TV Sherlock) fino a Paul Dano (l’odioso sacerdote della chiesa della Terza rivelazione in Il petroliere), compreso un Brad Pitt che fa una parte minore, ma che ha un ruolo chiave nella trama.
La massiccia presenza di canti spiritual arricchisce questo film, mettendo a confronto la differente religiosità dei protagonisti: da un lato i padroni, che la domenica leggono la bibbia ai propri schiavi, ma che si lasciano andare a frustate, punizioni, inaudite violenze e impiccagioni facili. Dall’altro gli schiavi, che la bibbia non sanno leggerla, ma che esprimono la loro fede in dio (quello della libertà, il dio che lenisce la fatica e il dolore delle ferite) con splendidi e primordiali blues; tra scenografie, costumi e musiche questo film è un gioiello di filologia cinematografica. Alcune scene sono già da storia del cinema, come per esempio quella della ‘impiccagione’ (chi vedrà, saprà), che lascia lo spettatore in un’angosciata e incredula apnea per tutta la sua durata: un piccolo capolavoro di fotografia e regia, un film nel film. La valutazione non può essere meno di ****. Se strizzare l’occhio a Hollywood significa realizzare questi lavori, allora (qualche volta) ben venga. Ora, però, procuratevi «Hunger» e «Shame» e vedeteveli.
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andrea marcon
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venerdì 21 febbraio 2014
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solo un pugno nello stomaco?
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Film assolutamente di livello, con interpretazioni degne di menzione (al netto di qualche facile ed eccessiva stereotipazione: ma in un film - che non ha a disposizione 600 pagine per calarci nella mente dei personaggi - ci sta). E però, però... personalmente, dopo 15 minuti mi è venuto istintivamente di volgere lo sguardo; mi sono detto "vuoi davvero vedere di quali nefandezze è capace un essere umano di razza caucasica? per due ore e mezza?" perché il film non mi avrebbe rivelato nessuna sorpresa, sapevo benissimo che il protagonista sarebbe sceso all'inferno e che la trama/non-trama avrebbe svolto il suo inevitabile filo di dolore, rabbia, sopportazione e infinita stupidità umana...
Pregevole qualche guizzo di regia, bravissimi gli attori, ma per chi conosce la storia del cinema (e la storia tout-court) un pugno nello stomaco che forse vorremmo evitarci.
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(di angydepp)
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