A un certo punto mi sono detta: “Sto guardando un film di Fellini…”. Non capivo la trama, non seguivo un intreccio, ma era un viaggio dentro un’emozione, era qualcosa di più grande di un semplice film.
Mi avevano messo in guardia: “Guarda che Sean Penn potrebbe risultarti antipatico, con quel risolino, quell’andatura e l’eloquio strascicati, sembra una caricatura di se stesso, poco riuscita…”. Invece, pur trascinando i piedi, non è mai inciampato! Nemmeno per un attimo… Sempre in bilico, ma grandioso!
Bontà e grazia del Cielo, quando ti parlano male di un film, perché vai a vederlo senza aspettarti chissà che e, nella maggior parte dei casi esci soddisfatta, mentre nel migliore dei casi ti conquista.
Così è stato con This Must be the Place. Titolo azzeccato: “Questo dovrebbe essere il posto” (da una canzone dei Talking Heads: “Home - is where I want to be/But I guess I’m already there/I come home - she lifted up her wings/Guess that this must be the place”. Casa - è dove voglio essere/Ma mi sa che ci sono già/Vengo a casa - lei ha sollevato le ali/Sento che questo dovrebbe essere il posto”).
Nessun luogo in particolare, senza storia né realtà: un percorso interiore - la nostra casa - quello che in un giorno di stanchezza o lieve depressione tocca anche a noi, quando con i piedi ciondoloni e gli occhi persi nel vuoto facciamo una pausa e ci mettiamo a riflettere sulla vita “senza farci un’idea precisa”.
Un road movie rivisitato, niente zaino sulle spalle, solo un carrellino per la spesa da trascinare lungo le strade, che si trasforma in un trolley quando è il momento di partire; mentre il trucco si fa via via più lieve, perché la maschera piano piano si scioglie e il bambino “risolvendo” il conflitto col padre (unico elemento banale, come è un po’ forzata l’appartenenza alla comunità ebraica; visto che non è funzionale al messaggio – anche se non si tratta di un messaggio, ma di un cammino, ripeto – avrebbe potuto cercare qualcosa di più originale) diventa grande.
E io adulto non l’avrei nemmeno fatto diventare, tanto mi è piaciuto vederlo viaggiare sotto un Cielo sopra a Berlino del “quando il bambino era bambino”… E poi: quei personaggi assurdi, alla Tim Burton, incontrati lungo la strada; inquadrature surreali alla David Lynch (fate caso all’interno della casa della maestra, con quella porta enorme sulla sinistra); fotografia alla Bertolucci esteta; e - l’ho già detto - c’è del Fellini nella struttura e nella concezione di cinema.
Dov’è Paolo Sorrentino in tutto questo? Alla cerimonia degli Oscar e ritirare la statuetta. A mio avviso, quello dovrebbe essere il suo posto.
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