In un mondo migliore |
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Un film di Susanne Bier.
Con Mikael Persbrandt, Trine Dyrholm, Ulrich Thomsen, Markus Rygaard, William Jøhnk Nielsen.
continua»
Titolo originale Hævnen.
Drammatico,
durata 113 min.
- Danimarca, Svezia 2010.
- Teodora Film
uscita venerdì 10 dicembre 2010.
MYMONETRO
In un mondo migliore ![]() ![]() ![]() ![]() ![]() |
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Una speranza per non morire
di olgadikFeedback: 9778 | altri commenti e recensioni di olgadik |
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domenica 9 gennaio 2011 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Il mondo migliore è quello che s’intravede nel finale del film, a mio parere la parte più debole di un lavoro bello e coraggioso. L’autrice dichiara che il lieto fine è stato una specie di debito pagato al pubblico, bisognoso di qualche luce di speranza in tempi piuttosto difficili. Certo, questa preoccupazione è lecita in chi vuol realizzare film etici, di approfondita analisi psicologica, dove si indagano conflitti, contraddizioni dell’essere umano in tutte le età e a tutte le latitudini. La mia impressione però è che la regista danese, pure ammirevole per il concetto alto che ha del fare cinema, abbia esagerato. Vediamo perché. Il difetto sta nel voler dire troppo senza accontentarsi del molto. Tanti temi insieme oggetto di analisi e di riflessione rischiano, a causa del mezzo che non ha la durata di un libro, di diventare un discorso che costeggia lo schematismo, in cui tutto alla fine deve tornare. Indubbiamente mettere mano a una materia così complessa – c’è il lutto, il rapporto genitori-figli, la relazione amorosa, il bullismo, i problemi dell’Africa, il rapporto medico-paziente ed altro ancora – può generare il pericolo dell’uso del moralismo al posto dell’etica. La regista peraltro è intelligente, sensibile, di grande energia, e la fiamma che corre sotto pelle al racconto, padroneggiato con nordico rigore, cattura e regala momenti di cinema emotivamente coinvolgente, su cui meditare ed interrogarsi. Perché chiedersi fino a che punto la non-violenza serve e può essere praticata nell’evoluto ma problematico nord-Europa o nei rapporti interpersonali in un pezzo tormentato di Africa, è importante. Ugualmente lo è l’interrogarsi su questo grande bisogno odierno di famiglia proprio nel momento del suo massimo cambiamento e inadeguatezza. C’è senz’altro poi da riflettere sulla piaga del bullismo nelle scuole di ogni stato occidentale: i due protagonisti adolescenti del film lo affrontano ognuno a suo modo. E poi il lutto, elemento centrale di tutte le opere della Bier, con le lacerazioni che comporta, sino a innescare processi di vera e propria deviazione della personalità. Ma sull’ altro versante, quello africano, si può ignorare che tipo di futuro si adombri in molte parti del continente per bambini e adolescenti che vivono quotidianamente esempi di violenza di tutti i tipi? E che succede se il dottore nordico, che potrebbe essere un modello diverso, permette nei pressi del suo ospedale un linciaggio, esasperato com’è dalla ferocia di un delinquente locale? Questo raffronto tra due realtà così lontane è un altro elemento pregnante del film, ma anche un’ulteriore trappola per l’autrice, poiché in questa comparazione a tavolino ritorna lo schematismo cui accennavo sopra. E veniamo ai fatti. Al centro la storia di formazione di due ragazzi, l’uno timido e gregario, che non accetta la separazione dei suoi e ama moltissimo quel padre medico nella lontana Africa; l’altro volitivo, rabbioso e in lotta con il padre cui attribuisce la colpa della morte della madre amatissima. Tra i due, dalla comune esigenza di far fronte al bullismo diffuso nella scuola, cresce un’amicizia dalle conseguenze impensabili, che sembra sterzare verso un dramma tale da segnare ulteriormente la vita di entrambi, se la Bier non si fosse sentita “costretta” a introdurre il finale positivo che il pubblico aspettava. Ma io penso che da questo attuale, un mondo migliore sia davvero lontano.
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