In un mondo migliore

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Un film di Susanne Bier. Con Mikael Persbrandt, Trine Dyrholm, Ulrich Thomsen, Markus Rygaard, William Jøhnk Nielsen.
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Titolo originale Hævnen. Drammatico, durata 113 min. - Danimarca, Svezia 2010. - Teodora Film uscita venerdì 10 dicembre 2010. MYMONETRO In un mondo migliore * * * - - valutazione media: 3,00 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

un film a metà, ma da vedere Valutazione 3 stelle su cinque

di chaoki21


Feedback: 877 | altri commenti e recensioni di chaoki21
mercoledì 29 febbraio 2012

 Il film della regista danese Susanne Bier ha il merito di sottolineare agli occhi dello spettatore alcuni elementi non marginali delle nostre società “occidentali“: il difficile rapporto tre i genitori e i figli; la presenza anche tra gli adolescenti di forme di sadismo e di perversione; il rapporto non sempre improntato alla autenticità tra studenti e corpo insegnante. La conclusione del film opera una sorta di riduzione di tutte le lacerazioni evidenziate nei punti sopra elencati, e tuttavia indica l’unica possibile, provvisoria, soluzione alle dinamiche negative interpretate dagli attori.
Sulla difficoltà del rapporto tra genitori e figli la regista coglie due esempi: quello di un orfano, Christian,  che colpevolizza il proprio padre della morte della madre, pensando che il genitore non abbia fatto tutto quanto era possibile per salvarla, e quello di un altro ragazzo, Elias,  che attribuisce, all’inverso, alla madre le responsabilità per l’imminente separazione tra i genitori stessi. Come si sa si tratta di due reazioni molto usuali tra i minori che hanno la sfortuna di vivere situazioni del genere. Come in una sorta di gioco degli specchi , i soggetti rielaborano le proprie sofferenze punendo e autopunendosi portando con sé e raddoppiando ogni volta “ la posta “, costruendo così  via via una carica di distruzione e/o di autodistruzione apparentemente inarrestabile.
Il rapporto tra gli insegnanti e Elias non si rivela particolarmente positivo per i docenti: essi minimizzano la portata degli atti di bullismo cui Elias è soggetto, attribuiscono persino all’imminente separazione dei genitori le difficoltà di rapporto del ragazzo con gli altri compagni di classe, e in specie, di quello con il proprio persecutore. Anche le iniziative didattiche, come l’autogestione,  che dovrebbero avere come centro l’individualità degli studenti viene invece  piegata alle aspettative o alle esigenze dei docenti stessi. Forse è veramente difficile pensare altrimenti, ma sembra che la regista voglia proprio confermarci la fondamentale solitudine entro cui, specialmente i ragazzi in età scolare, devono iniziare a “fare i conti con il mondo”.
E veniamo all’aspetto, che correttamente è stato ritenuto il più preponderante: come reagire di fronte alla manifestazione del male, o di comportamenti latamente quando non scopertamente criminali.  Christian ha perso la madre da poco, ha un passato scolastico da girovago ed ha, da sempre, dovuto rapportarsi con persone più prepotenti e meno accomodanti di lui. Giunto nella nuova scuola fa amicizia con Elias, vittima del bullo della classe. Quest’ultimo però viene aggredito da Christian e ridotto a mal partito. La cosa impensierisce i rispettivi genitori dei due ragazzi che tentano di intavolare con i figli una riflessione sulla necessità di non farsi giustizia da soli, di far prevalere sempre l’aspetto razionale sull’emotività. Il padre di Elias, medico attivamente impegnato anche in una organizzazione umanitaria in Africa, arriva al punto di scontrarsi, non opponendo alcuna resistenza, con un altro uomo decisamente più violento pur di tentare di far comprendere al proprio figlio l’importanza, per lui, di astenersi dall’uso di mezzi violenti di persuasione. Significativamente in quella sequenza Christian fa notare al padre di Elias di non essere convinto che l’adulto violento, il meccanico manesco, abbia compreso la necessità di non essere prepotente, e questo perchédi fronte a comportamenti decisamente e inequivocabilmente lesivi della dignità delle persone, l’unica reazione efficace, per Christian, è rispondere con la violenza alla violenza.
Ora è proprio questo il fuoco centrale del film, il riflettere, con Christian, della necessità, in determinate situazioni, di non poter fare a meno dell’uso della violenza è lecito? E se sì, tale orientamento è da intendersi in senso assoluto? Esiste, insomma, una barriera che non può essere in ogni caso infranta da parte di chi subisce le azioni violente ed è manifestamente vittima delle prepotenze altrui? La pulsione a compiere il male è totalmente gratuita o può trovare nelle strutture della società attuale una qualche, possibile, diga? Non c’è dubbio che la regista lascia aperta la questione, in questo senso non spinge oltre l’analisi della situazione, lasciando allo spettatore di riflettere e di trovare da solo le risposte che considera più opportune. A questo proposito, ad esempio, la ferocia delle violenze a cui il padre di Elias assiste nel paese africano dove opera sono il doppio simbolico della più lieve, almeno apparentemente, violenza di cui lo stesso figlio è vittima.
Il finale potrebbe essere inteso come una sorta di concessione, estranea alla struttura del film stesso, all’happy end, o per lo meno a quello che si usa definire come un finale “buonista”. E’ possibile che questo ci sia, e molti critici e commentatori hanno interpretato così le ultime parti della pellicola. Tuttavia, sia pure con scarsa verosimiglianza, la regista tocca un aspetto non meno importante per una corretta interpretazione della sua opera: solo all’interno di una rete di affetti reali e non fasulli si può sperare che le tantissime spirali di odio e di prepotenza possano essere diminuite o rese meno pericolose. E’ infatti osservazione comune il ritenere come, generalmente, le persone che si rendono protagonisti di gravi atti lesivi o criminali nei confronti degli altrisono quelle stesse persone che in un modo o nell’altro sono stati oggetto a loro volta di violenze e di comportamenti delinquenziali
E’ questo certo un pensiero condiviso da tanti, ma è proprio questo quello che la regista ci vuole dire? Secondo me il finale “buonista” non consiste nel pensare che i due ragazzi si riconciliano con i propri genitori, consiste nel ritenere che basta l’affetto della famiglia per emarginare definitivamente l’insorgere delle violenze.
Il film affronta e sfiora quindi tematiche decisamente attuali, e probabilmente avvertite con maggiore acutezza in quelle società del Nord Europa tradizionalmente attente ai temi del rispetto della persona e dell’uso, o del non uso, dei mezzi coercitivi. L’argomento, a ben vedere, non è neanche una novità in sé, basterà pensare ad altri film, che toccano però anche altri temi, come Lasciami entrare o il più datato l’Allievo.
Nunzio Pizzuto
 

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