Ci vuole molto coraggio per affrontare nello stesso film, in modo diretto e con intenti pedagogici, tematiche complesse e spinose come il disagio esistenziale degli adolescenti, l’incomunicabilità nel rapporto genitori-figli, il valore educativo del perdono e l’inutilità della vendetta. Molto coraggio e una grande sensibilità.
Perché In un mondo migliore della bravissima regista danese Susanne Bier non si ferma in superficie, con una forte tensione etica scandaglia questi temi in profondità, proponendoci differenti chiavi di lettura, su più livelli. Da un lato contrappone realtà sociali completamente diverse come l’apparentemente tranquilla vita di provincia nella civile Danimarca, alternata all’atroce guerra africana nel Darfur, dall’altro cerca di andare alle radici dell’istinto violento e aggressivo insito in tutti gli esseri umani indipendentemente dal benessere economico e dalla realtà culturale che li circonda.
Al centro del film ci sono due ragazzini in crisi : Elias, timido e sensibile, preso di mira dai bulli della scuola, e Christian, aggressivo e chiuso in se stesso, in collera con il padre e con il mondo. Entrambi vivono situazioni familiari molto difficili, specialmente il rapporto con la figura paterna. Il primo a causa della lontananza del padre, medico volontario in Africa, e per la recente separazione dei genitori, il secondo perché non è ancora riuscito a superare il durissimo trauma della morte della madre malata di cancro. Inevitabilmente finiscono per soccorrersi a vicenda e diventare amici inseparabili. Soprattutto Elias, fragile e in balia dei teppistelli che lo molestano, ha bisogno della personalità forte e protettiva di Christian. Di fronte alle angherie dei bulli non gli serve a nulla l’esempio del padre con i suoi valori pacifici e nonviolenti.
La figura del medico Anton è eticamente straordinaria e in teoria altamente educativa, invece è proprio la scena del padre inerte e indifeso di fronte all’aggressione del rozzo e prepotente meccanico che innesca la drammatica spirale psicologica che porta i due ragazzi a scegliere la violenza e la vendetta. Se per Anton il porgere cristianamente l’altra guancia è una scelta maturata e fondata su convinzioni profonde, per Christian ed Elias l’urgenza è l’affermazione della propria identità e il riscatto immediato dei presunti torti subiti. Neppure gli “alti” principi di Anton però sono al riparo dal dubbio e dalla crisi interiore.
Nella civile e democratica Danimarca il suo rigore etico non è neppure scalfito dalla prepotenza e della maleducazione del manesco meccanico, ma di fronte alla crudeltà e al sadismo dello schifoso signore della guerra africano il rifiuto della violenza mostra tutti i suoi limiti e non ha alcun senso parlare di perdono. Non c’è quindi nessuna alternativa tra il soccombere alla violenza e l’uso della forza ? o anche, la scelta del perdono e il rifiuto della violenza sono valori etici assoluti o dipendono dalle circostanze ? In un mondo migliore, pur eccedendo in qualche passaggio a mio parere un po’ troppo schematico, non confeziona risposte facili e scontate, piuttosto ci provoca, ci stimola e invita a riflettere sulla storia e sui protagonisti, tutti delineati con oculatezza e grande spessore psicologico. Fondamentale è la tensione etica che il film riesce a trasmettere, la capacità di emozionare e di coinvolgere lo spettatore.
Merito prima di tutto di attori straordinari, a cominciare dai due amici interpretati in modo superbo da William Nielsen (Christian) e Markus Rygaard (Elias). Magnifica anche la prova di Mikael Persbrandt che riesce a trasmettere la fermezza interiore ma anche l’inquietudine del medico Anton di fronte alle difficili scelte che deve compiere. Non va dimenticata l’ottima regia di Susanne Bier, giustamente premiata con il premio Oscar per il miglior film
straniero. Una regia atipica, innovativa, nel solco del Dogma 95 di Lars Von Trier, di cui la regista è stata allieva, che non teme l’uso della macchina da presa a mano, con frequenti “zoomate” e primi piani sui volti e sugli sguardi. Una regia ottimamente integrata con una coraggiosa fotografia dai colori caldi e intensi negli scenari africani, freddi e foschi nella parte danese. Tutti questi fattori imprimono al film tensione emotiva e forza morale ma senza lanciare messaggi moralisti o buonisti. La possibilità di un mondo migliore, sembra dirci la Bier, non dipende da aspetti economici o dalla latitudine dove si vive, e non basta neanche l’educazione, ciò che più conta è la capacità di ciascuno di affrontare e risolvere la propria crisi interiore con una maturazione etica dei propri valori.
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