stefano pariani
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lunedì 6 dicembre 2010
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in un mondo migliore tra violenza e odio
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Dopo la parentesi americana di "Noi due sconosciuti", la danese Susanne Bier torna in patria con una nuova, intensa storia: al centro della pellicola il tema dei conflitti. Il racconto si svolge, con continui rimandi di montaggio, in una cittadina benestante della Danimarca, osservata nella sua quotidianità, e nell'Africa degli ospedali da campo. Nella prima seguiamo le vicende dell'amicizia pericolosa tra Christian, un ragazzino viziato, arrabbiato col mondo e ferito per la prematura scomparsa della madre, e il suo coetaneo Elias, timido, remissivo e vessato dai compagni di scuola. In Sudan, invece, il padre di Elias, Anton (Mikael Persbrandt), opera come medico in un campo in cui troppo spesso vengono portate donne incinte brutalmente ferite da un tiranno locale.
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Dopo la parentesi americana di "Noi due sconosciuti", la danese Susanne Bier torna in patria con una nuova, intensa storia: al centro della pellicola il tema dei conflitti. Il racconto si svolge, con continui rimandi di montaggio, in una cittadina benestante della Danimarca, osservata nella sua quotidianità, e nell'Africa degli ospedali da campo. Nella prima seguiamo le vicende dell'amicizia pericolosa tra Christian, un ragazzino viziato, arrabbiato col mondo e ferito per la prematura scomparsa della madre, e il suo coetaneo Elias, timido, remissivo e vessato dai compagni di scuola. In Sudan, invece, il padre di Elias, Anton (Mikael Persbrandt), opera come medico in un campo in cui troppo spesso vengono portate donne incinte brutalmente ferite da un tiranno locale. In entrambe le realtà gli episodi di violenza nascono in modo istintivo, illogico e senza valido motivo, per una scommessa sul sesso del nascituro ai danni della madre che lo porta ancora in grembo oppure per una banale lite tra bimbi al parco giochi: l'aggressività è universale e la tragedia che ne segue può portare a svolte forse irreparabili. In un mondo migliore il riscatto sta nella forza morale (e del perdono, se possibile) e nel respingere l'idiozia della violenza. Bravissimi e ben diretti tutti gli attori, a partire da Mikael Persbrandt, che delinea un personaggio allo stesso tempo forte e fragile: divorziato e lontano per lavoro dai figli, volge il suo sguardo fermo alle ingiustizie dei grandi e dei piccoli, ai quali cerca di spiegare la sua morale. La regista racconta con occhio critico, come già nei precedenti lavori, le dinamiche della famiglia e il rapporto genitori-figli e ha una sensibilità particolare per il mondo dei più piccoli, qui interpretati con realismo da straordinari giovani attori. La narrazione è fluida e avvincente, scivola nel mélo, ma con stile sempre lucido e mai patetico.
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writer58
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domenica 23 gennaio 2011
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impressioni...
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-Allora, ti è piaciuto?
- Un film bellissimo. E a te?
-Insomma, un buon film, ma non mi è parso straordinario
- Sembra che ci siamo scambiati i ruoli
- Vuoi dire che esco osannando tutti i film che ho visto? Non ti sembra, piuttosto, che il finale del film sia un po' consolatorio?
- Forse.. scusa, adesso devo pagare il parcheggio.
[dieci minuti dopo]
-Vorrei capire perché il film ti è piaciuto tanto.
-Il film parla della morte. Del modo in cui le persone si rapportano alla morte.Sia in Sudan, col medico che si trova a operare in una situazione di enorme difficoltà, che deve salvare donne sventrate da un assassino tribale, sia in Danimarca, dove uno dei ragazzi protagonisti -Christian- vive costantemente sfidando la morte, ne è quasi affascinato.
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-Allora, ti è piaciuto?
- Un film bellissimo. E a te?
-Insomma, un buon film, ma non mi è parso straordinario
- Sembra che ci siamo scambiati i ruoli
- Vuoi dire che esco osannando tutti i film che ho visto? Non ti sembra, piuttosto, che il finale del film sia un po' consolatorio?
- Forse.. scusa, adesso devo pagare il parcheggio.
[dieci minuti dopo]
-Vorrei capire perché il film ti è piaciuto tanto.
-Il film parla della morte. Del modo in cui le persone si rapportano alla morte.Sia in Sudan, col medico che si trova a operare in una situazione di enorme difficoltà, che deve salvare donne sventrate da un assassino tribale, sia in Danimarca, dove uno dei ragazzi protagonisti -Christian- vive costantemente sfidando la morte, ne è quasi affascinato. Hai presente la scena in cui pronuncia l'orazione funebre per la madre morta? E' freddo, distaccato, impeccabile. In realtà è furioso e non riesce a esprimere la sua rabbia, la sua sofferenza. Per questo sale in cima a quell''edificio altissimo e si avvicina al bordo senza protezioni, per questo confezione una bomba rudimentale e quasi uccide il suo amico.
-Interessante, però, viste le premesse, lo scioglimento mi sembra un po' troppo ottimista. Forse sarebbe stato meglio se il senso di vuoto, di mancanza di comunicazione che avvolge i protagonisti e la provincia Danese si fosse mantenuto fino al finale. Invece Christian si riconcilia con il padre e con la vita. I buoni sentimenti trionfano...
- Magari lui ha vissuto una specie di catarsi, era convinto che l'amico fosse morto nell'esplosione. Per questo stava per buttarsi dall'edificio e viene sottratto alla morte all'ulrimo momento. Forse vedere la propria morte come una realtà imminente lo ha liberato dai lacci che lo tenevano avvinto.
- Mah, può essere. A me in ogni caso non è parso un capolavoro. Un buon film a tesi, niente di più. Ci facciamo una birra prima di rientrare?
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ashtray_bliss
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domenica 24 febbraio 2013
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creare un mondo migliore e' impossibile.
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Nonostante il titolo originale sia semplicemente Haevnen, che significa vendetta in lingua danese, (e da non confondersi con la simile parola inglese heaven di tutt'altro significato) Il titolo della verione internazionale In a Better World, e di conseguenza quello della versione italiana In Un Mondo Migliore, funziona paradossalmente, perche' guardando questo film ci si accorge e ci si convince sempre piu' che non potremo mai creare un mondo migliore, un mondo di pace e fratellanza perche' la cattiveria, la rabbia, la voglia di imporsi e pravalere sugli altri (concetto che annulla l'idea di uguaglianza) e' innato nella natura umana e chi piu' chi meno, coesiste in tutti noi.
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Nonostante il titolo originale sia semplicemente Haevnen, che significa vendetta in lingua danese, (e da non confondersi con la simile parola inglese heaven di tutt'altro significato) Il titolo della verione internazionale In a Better World, e di conseguenza quello della versione italiana In Un Mondo Migliore, funziona paradossalmente, perche' guardando questo film ci si accorge e ci si convince sempre piu' che non potremo mai creare un mondo migliore, un mondo di pace e fratellanza perche' la cattiveria, la rabbia, la voglia di imporsi e pravalere sugli altri (concetto che annulla l'idea di uguaglianza) e' innato nella natura umana e chi piu' chi meno, coesiste in tutti noi.
Non c'entra se si vive in posti poveri e pericolosi come il Sudan, in Africa, o in luoghi borghesi come la Danimarca, da nessuna parte e' possibile sperare in un mondo migliore finche' persiste la dittatura della violenza in tutte le sue forme. Di questo ci parla essenzialmente la Bier in questa pellicola pluripremiata. La violenza e la cattiveria sono innati nella natura umana e' sono cio che ostacola la creazione di un mondo diverso, piu' equo e giusto piu' onesto e sicuro.
Ma attorno a questo argomento principale, la Bier, ci condisce tematiche sempre attuali come l'incomunicabilita' tra genitori e figli, la difficile elaborazione di un lutto, specialmente quello di un genitore (come nel caso di Christian che perde prematuramente la madre), il bullismo e l'emarginazione scolastica (nel caso di Ilias) e i problemi legati ai genitori che stanno divorziando.
Il film, inoltre, per evidenziare al meglio l'argomento attorno al quale ruota, si divide in due livelli paralleli di narrazione: Il primo e' quello ambientato nei sobborghi ricchi e benestanti della Danimarca e segue principalmente il susseguirsi di eventi dei due ragazzini, Christian e Ilias. Il secondo e' quello ambientato in Sudan, nel campo ospedaliero dove lavora come medico Anton, padre di Ilias, e dove viene costantemente a contatto con la violenza, sotto forma di donne incinta sventrate che vengono recuperate e soccorse. Le due storie parallele hanno come punto in comune il personaggio di Anton il quale da una parte e' medico-testimone delle violenze e brutalita' che regnano nei paesi e tribu' africane poco istruite, dove persistono superstizione e riti barbari e dove le donne vengono massacrate in nome di mere scommesse; dall'altra parte del mondo, invece, in Danimarca assiste alla arroganza e propensione alla violenza delle persone come il 'meccanico' che lo insulta e lo schiaffeggia e l'influenza piuttosto negativa di Christian sul figlio Ilias.
Infatti i due ragazzini diventano inseparabili ma il rapporto che c'e' tra i due non e' (almeno non da subito) di amicizia e dunque di uguaglianza bensi' una rapporto piuttosto ineguale e despotico. Christian difende Ilias dai bulli che lo vessano a scuola e si vendica pesantemente con uno di loro minacciandolo addirittura con coltello. Da quel momento Christian tiene in pugno Ilias, ragazzino remissivo, introverso, fragile e timido, rendolo suo complice in un piano pericoloso. Quest'ultimo infatti si mette in testa l'idea di creare una bomba e far esplodere l'auto del mecchanico che insulto Anton, papa' di Ilias. Ovviamente dietro la voglia di far esplodere meterialmente la bomba c'e' quella di far esplodere e lasciar andare tutta la rabbia repressa, il rancore, il dolore che provava ma che non riusciva ad esternare se non tramitte la violenza (verbale o fisica). I due pianificano tutto e procedono secondo i piani ma sfiorano una tragedia senza precedenti. Ilias rimane anche ferito durante l'esplosione nel tentativo di allontanare dalla bomba una madre e la sua bambina.
A quel punto arriva la nemesi e la catarsi degli spettatori: Christian comprende la gravita' delle proprie azioni e tenta anche il suicidio per poi crollare tra le mani apprensive e paterne di Anton. Ma si riconciliera' anche col proprio padre, uomo anch'esso introverso e addolorato per la perdita di sua moglie ma padre piuttosto assente dalla vita del figlio. Dopo giorni riuscira' a riavvicinarsi anche con l'amico Ilias, il quale lo perdona.
Finale sicuramente buonista e positivista che pero' non annulla il messaggio che tenta di mandare agli spettatori: Qual'e' il mondo migliore che vogliamo creare? Possiamo veramente sperarci?
In realta' la risposta, secondo la regista, e' negativa. "Siamo tutti assassini, uomini, donne e bambini, tutti" dira' BigMan (l'assassino tribale del Sudan) ad Anton nel campo ospedaliero, prima di essere linciato dalla folla. E' ha ragione, cosa della quale se ne rende ben presto conto lo stesso Anton, anche a casa sua, nella tanto progredita e democratica Danimarca.
La crudelta' e cattiveria e' innata nelle persone, anche nei piu' piccoli, e si manifesta sottoforma del bullismo a scuola, della vendetta a suon di violenza e minaccie su quest'ultimi (da parte di Christian), sul cercare continuamente scuse per attaccare il prossimo. La morale a volte non serve, perche' viene ofuscata dalla irrefrenabile voglia di vendetta verso gli altri come ultima arma per esprimere se stessi, per scaricare i propri sentimenti (dolore, rabbia, nervosismo....)
Ben diretto e ben recitato In A Better World e' un film amaro ma dal finale che assolve e perdona i propri personaggi regalando anche agli spettatori uno spiraglio di speranza per il futuro e il mondo che verra'.
La pellicola rappresenta una realta' (e tematica) non originale ma anzi ben nota e pur sempre cara al cinema indipendente europeo tanto da vincere svariati premi a mostre e festival europei nonche' accaparrarsi anche la tanto ambita stautetta d'oro.
Prodotto valido ma non incisivo. Consigliato.
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sergio dal maso
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domenica 28 giugno 2015
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in un mondo migliore
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Ci vuole molto coraggio per affrontare nello stesso film, in modo diretto e con intenti pedagogici, tematiche complesse e spinose come il disagio esistenziale degli adolescenti, l’incomunicabilità nel rapporto genitori-figli, il valore educativo del perdono e l’inutilità della vendetta. Molto coraggio e una grande sensibilità.
Perché In un mondo migliore della bravissima regista danese Susanne Bier non si ferma in superficie, con una forte tensione etica scandaglia questi temi in profondità, proponendoci differenti chiavi di lettura, su più livelli. Da un lato contrappone realtà sociali completamente diverse come l’apparentemente tranquilla vita di provincia nella civile Danimarca, alternata all’atroce guerra africana nel Darfur, dall’altro cerca di andare alle radici dell’istinto violento e aggressivo insito in tutti gli esseri umani indipendentemente dal benessere economico e dalla realtà culturale che li circonda.
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Ci vuole molto coraggio per affrontare nello stesso film, in modo diretto e con intenti pedagogici, tematiche complesse e spinose come il disagio esistenziale degli adolescenti, l’incomunicabilità nel rapporto genitori-figli, il valore educativo del perdono e l’inutilità della vendetta. Molto coraggio e una grande sensibilità.
Perché In un mondo migliore della bravissima regista danese Susanne Bier non si ferma in superficie, con una forte tensione etica scandaglia questi temi in profondità, proponendoci differenti chiavi di lettura, su più livelli. Da un lato contrappone realtà sociali completamente diverse come l’apparentemente tranquilla vita di provincia nella civile Danimarca, alternata all’atroce guerra africana nel Darfur, dall’altro cerca di andare alle radici dell’istinto violento e aggressivo insito in tutti gli esseri umani indipendentemente dal benessere economico e dalla realtà culturale che li circonda.
Al centro del film ci sono due ragazzini in crisi : Elias, timido e sensibile, preso di mira dai bulli della scuola, e Christian, aggressivo e chiuso in se stesso, in collera con il padre e con il mondo. Entrambi vivono situazioni familiari molto difficili, specialmente il rapporto con la figura paterna. Il primo a causa della lontananza del padre, medico volontario in Africa, e per la recente separazione dei genitori, il secondo perché non è ancora riuscito a superare il durissimo trauma della morte della madre malata di cancro. Inevitabilmente finiscono per soccorrersi a vicenda e diventare amici inseparabili. Soprattutto Elias, fragile e in balia dei teppistelli che lo molestano, ha bisogno della personalità forte e protettiva di Christian. Di fronte alle angherie dei bulli non gli serve a nulla l’esempio del padre con i suoi valori pacifici e nonviolenti.
La figura del medico Anton è eticamente straordinaria e in teoria altamente educativa, invece è proprio la scena del padre inerte e indifeso di fronte all’aggressione del rozzo e prepotente meccanico che innesca la drammatica spirale psicologica che porta i due ragazzi a scegliere la violenza e la vendetta. Se per Anton il porgere cristianamente l’altra guancia è una scelta maturata e fondata su convinzioni profonde, per Christian ed Elias l’urgenza è l’affermazione della propria identità e il riscatto immediato dei presunti torti subiti. Neppure gli “alti” principi di Anton però sono al riparo dal dubbio e dalla crisi interiore.
Nella civile e democratica Danimarca il suo rigore etico non è neppure scalfito dalla prepotenza e della maleducazione del manesco meccanico, ma di fronte alla crudeltà e al sadismo dello schifoso signore della guerra africano il rifiuto della violenza mostra tutti i suoi limiti e non ha alcun senso parlare di perdono. Non c’è quindi nessuna alternativa tra il soccombere alla violenza e l’uso della forza ? o anche, la scelta del perdono e il rifiuto della violenza sono valori etici assoluti o dipendono dalle circostanze ? In un mondo migliore, pur eccedendo in qualche passaggio a mio parere un po’ troppo schematico, non confeziona risposte facili e scontate, piuttosto ci provoca, ci stimola e invita a riflettere sulla storia e sui protagonisti, tutti delineati con oculatezza e grande spessore psicologico. Fondamentale è la tensione etica che il film riesce a trasmettere, la capacità di emozionare e di coinvolgere lo spettatore.
Merito prima di tutto di attori straordinari, a cominciare dai due amici interpretati in modo superbo da William Nielsen (Christian) e Markus Rygaard (Elias). Magnifica anche la prova di Mikael Persbrandt che riesce a trasmettere la fermezza interiore ma anche l’inquietudine del medico Anton di fronte alle difficili scelte che deve compiere. Non va dimenticata l’ottima regia di Susanne Bier, giustamente premiata con il premio Oscar per il miglior film
straniero. Una regia atipica, innovativa, nel solco del Dogma 95 di Lars Von Trier, di cui la regista è stata allieva, che non teme l’uso della macchina da presa a mano, con frequenti “zoomate” e primi piani sui volti e sugli sguardi. Una regia ottimamente integrata con una coraggiosa fotografia dai colori caldi e intensi negli scenari africani, freddi e foschi nella parte danese. Tutti questi fattori imprimono al film tensione emotiva e forza morale ma senza lanciare messaggi moralisti o buonisti. La possibilità di un mondo migliore, sembra dirci la Bier, non dipende da aspetti economici o dalla latitudine dove si vive, e non basta neanche l’educazione, ciò che più conta è la capacità di ciascuno di affrontare e risolvere la propria crisi interiore con una maturazione etica dei propri valori.
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magra
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giovedì 23 dicembre 2010
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pace e amore
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Film coinvolgente che permette allo-a spettatore di vivere in modo intenso un tema così complesso e al tempo stesso spigoloso come "la pace e la violenza".
La violenza e la pace i due opposti, che fin tanto che rimangono tali, non possono che generare ulteriore violenza.
Il momento cardine del film è a mio avviso l'uccisone del capo della banda africana da parte dei suoi stessi simili per i misfatti che egli compie e la posizione splendida del dottore che lascia che questo accada, accettandolo impotente,ma allo stesso tempo conscio che è l'unico modo, che quella gente in quel momento ha per farsi giustizia.
Una giustizia che è ancora fatta di condanna dei cattivi e riscossa dei buoni.
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Film coinvolgente che permette allo-a spettatore di vivere in modo intenso un tema così complesso e al tempo stesso spigoloso come "la pace e la violenza".
La violenza e la pace i due opposti, che fin tanto che rimangono tali, non possono che generare ulteriore violenza.
Il momento cardine del film è a mio avviso l'uccisone del capo della banda africana da parte dei suoi stessi simili per i misfatti che egli compie e la posizione splendida del dottore che lascia che questo accada, accettandolo impotente,ma allo stesso tempo conscio che è l'unico modo, che quella gente in quel momento ha per farsi giustizia.
Una giustizia che è ancora fatta di condanna dei cattivi e riscossa dei buoni.
La posizione del dottore é al di là si potrebbe dire "del bene e del male" con una profonda accettazione della lacerazione che questo comporta.
Ma non si può imporre la propria evoluzione, il proprio salto di coscienza, pena il commettere un ulteriore violenza, si può insegnarlo senza pretese di comprensione immediata. Ed é questo quello che fa il medico nella sua famiglia e nell'educazione dei suoi figli, con fatica ed umiltà, consapevole che la strada verso la pace è irta di difficoltà, mentre la scelta, se così si può dire, di un comportamento violento sembra essere favorito da tutto e da tutti.
Questa scelta avrà la meglio nel finale del film come risultato di una crescita di una coscienza, che si può intravedere sin dall'inizio del film.
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[+] difficile costruire con ricette un mondo migliore.
(di lalari)
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gianluca.dm
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lunedì 17 gennaio 2011
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le virtù di un bel film
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Mi piace azzardare che questo film della Bier debba qualcosa a Bergman (più per i paesaggi e certi colori mattutini dove la brina si adagia sui prati e sulle anime), Kieslowski (per i dilemmi morali cui lo spettatore si trova dinnanzi) e Kubrick (un'Arancia meccanica ormai talmente matura che siamo costretti a raccoglierne i frutti deteriorati). Anche se il tutto con le dovute proporzioni, l'opera della regista danese rimane molto convincente nella trama, che lascia lo spettatore sul filo di una tensione continua fino alle ultime sequenze, e nel montaggio parallelo tra Africa e Danimarca, tra violenza e comprensione, tra ingiustizia e amore.
Si possono fare riflessioni sulla famiglia in una società borghesizzata, sull'adolescenza e sulle difficoltà per un bambino di sopravvivere all'allontanamento o alla perdita di un affetto, sulla violenza e sulla vendetta (Hævnen, titolo originale del film).
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Mi piace azzardare che questo film della Bier debba qualcosa a Bergman (più per i paesaggi e certi colori mattutini dove la brina si adagia sui prati e sulle anime), Kieslowski (per i dilemmi morali cui lo spettatore si trova dinnanzi) e Kubrick (un'Arancia meccanica ormai talmente matura che siamo costretti a raccoglierne i frutti deteriorati). Anche se il tutto con le dovute proporzioni, l'opera della regista danese rimane molto convincente nella trama, che lascia lo spettatore sul filo di una tensione continua fino alle ultime sequenze, e nel montaggio parallelo tra Africa e Danimarca, tra violenza e comprensione, tra ingiustizia e amore.
Si possono fare riflessioni sulla famiglia in una società borghesizzata, sull'adolescenza e sulle difficoltà per un bambino di sopravvivere all'allontanamento o alla perdita di un affetto, sulla violenza e sulla vendetta (Hævnen, titolo originale del film). Preferisco considerare un altro aspetto: il film infatti, ripercorrendo alcune tematiche bergmaniane, tocca, da un punto di vista laico, le corde delle tre virtù teologali: carità, speranza, fede.
La carità ovviamente si trova soprattutto all'interno dell'ospedale da campo in Africa. La speranza è l'unica spiegazione che si può dare al lieto fine: è evidente che da quel barato che diventa sempre più profondo, da quel silos sempre più alto, la regista, e noi con lei, possiamo uscirne soltanto se permeati da questa virtù. Diamo un'occhiata alla società, guardiamoci dentro: facile rendersi conto di quanto sia tortuosa la strada da percorrere, di come il suo percorso sia imprescindibile dalla speranza.
La fede è forse un po' più nascosta, e si trova negli occhi azzurri del medico. E' una fede assoluta nei valori che devono ispirare e guidare l'esistenza di un uomo, una fede che aiuta a comprendere la natura umana e a compatirne le sofferenze. E' la forza che non fa sentire il dolore degli schiaffi del mondo, la tenacia con la quale affrontare le ingiustizie che ci circondano.
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toro sgualcito
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venerdì 7 gennaio 2011
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ci si abbraccia sul bordo dell’abisso.
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Prima di tutto un grazie alla Teodora Film che con coraggio e passione lo ha distribuito in Italia. In un mondo migliore è un film emotivamente muscolare con una storia apparentemente lineare. Il fatto è che qui il concetto di protagonista viene spaccato e fatto aderire ai cinque personaggi principali (tre adulti e due bambini). Questo è il notevole effetto di una sceneggiatura e una regia molto sapienti. Il titolo originale danese è Vendetta (Hævnen), ma è fuorviante perché non rende giustizia della complessità di questo film che non si limita affatto a questo sentimento. La storia ci mostra delle relazioni familiari lacerate dal dolore, dalla rabbia e dalla distanza fisica ma anche relazionale.
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Prima di tutto un grazie alla Teodora Film che con coraggio e passione lo ha distribuito in Italia. In un mondo migliore è un film emotivamente muscolare con una storia apparentemente lineare. Il fatto è che qui il concetto di protagonista viene spaccato e fatto aderire ai cinque personaggi principali (tre adulti e due bambini). Questo è il notevole effetto di una sceneggiatura e una regia molto sapienti. Il titolo originale danese è Vendetta (Hævnen), ma è fuorviante perché non rende giustizia della complessità di questo film che non si limita affatto a questo sentimento. La storia ci mostra delle relazioni familiari lacerate dal dolore, dalla rabbia e dalla distanza fisica ma anche relazionale. C’è un medico che fa il chirurgo in una sorta di Ong in Africa dove violenza e povertà sono pane quotidiano. Sua moglie anche lei medico ma in Danimarca si è separata da lui. Hanno due figli e il più grande è un adolescente vessato a scuola da un gruppo di bulli. C’è un altro padre che ha recentemente perso la moglie a causa di un cancro e in seguito a questa tragedia ha perso anche il dialogo col suo unico figlio. Ecco i cinque personaggi le cui vite si attorcigliano come serpenti emotivi attorno al cuore dello spettatore. Susanne Bier (la regista) infatti ci mostra emozioni forti che si accavallano tra loro e l’effetto che si produce è un senso di oppressione è impotenza molto forti. Inoltre nel film la violenza è chiaramente esibita. Siamo di fronte ad un modo di fare cinema che non cerca strizzate d’occhio né certezze. Non credo però sia il caso di evocare il manifesto Dogma 95 di Lars Von Trier sia perché la Bier non ne rispetta le regole sia perché non le ha mai rispettate neanche Von Trier che ha creato quel manifesto (come pure gli altri) con grande passione e ironia. Sarà un caso che nel film della Bier l’energumeno che fa il meccanico si chiama Lars? Se a qualcuno il film è apparso ingenuamente pacifista i temi trattati invece sono profondi e inquietanti: la figura di un uomo che accetta di essere schiaffeggiato senza difendersi di fronte ai suoi figli è forte ma non è affatto rassicurante. Da questo film non si esce a cuor leggero. E’ vero che il finale risarcitorio non ci lascia precipitare ma senza dubbio ci fa camminare lungo l’orlo di un abisso. Dal cinema si può uscire con l’animo seduto sul bordo come il giovane Elias con le gambe a penzoloni sul tetto del silos. Personalmente più che sulla vendetta il film mi ha lasciato profondi interrogativi sulla violenza. E’ un film duro ma lascia qualcosa di vitale. Merita la visione senz’altro. Una piccola cosa: nel film il ragazzo Elias (quello rabbioso per intenderci) somiglia un po’ all’Antoine dei Quattrocento colpi di Truffaut chissà se la cosa è voluta.
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algernon
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sabato 22 gennaio 2011
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vendetta
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Si, il titolo originale Hævnen, Vendetta, mi pare, come già altri hanno notato, la migliore chiave interpretativa. Il film è una sapiente indagine sui rapporti fra sopraffazione e vendetta, come una naturale ed automatica concatenazione di azione e reazione. "In un mondo migliore", che poi è il titolo con cui il film è stato distribuito in quasi tutto il mondo, è come un'aspirazione, un "desiderata", di chi ritiene che i rapporti umani si possano e si debbano regolare senza violenza, e perciò anche senza vendetta, arrivando perfino a porgere l'altra guancia, come esemplifica Anton, il padre di Elias, tentando invano di illustrare pacificamente il suo punto di vista al meccanico manesco che già lo aveva percosso.
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Si, il titolo originale Hævnen, Vendetta, mi pare, come già altri hanno notato, la migliore chiave interpretativa. Il film è una sapiente indagine sui rapporti fra sopraffazione e vendetta, come una naturale ed automatica concatenazione di azione e reazione. "In un mondo migliore", che poi è il titolo con cui il film è stato distribuito in quasi tutto il mondo, è come un'aspirazione, un "desiderata", di chi ritiene che i rapporti umani si possano e si debbano regolare senza violenza, e perciò anche senza vendetta, arrivando perfino a porgere l'altra guancia, come esemplifica Anton, il padre di Elias, tentando invano di illustrare pacificamente il suo punto di vista al meccanico manesco che già lo aveva percosso. Anton è un chirurgo che mette in pratica la sua filosofia di vita con grande impegno personale in un campo profughi in Sudan, curando gli oppressi come l'oppressore (un sanguinario boss locale che si fa chiamare Big Man) e che alla fine assiste rassegnato alla vendetta dei primi sul secondo. Il film è molto bello, diretto con maestria, gli attori sono eccellenti, tanto gli adulti come i ragazzi, la fotografia è bellissima, con un uso notevole dei contrasti di luce. da non perdere.
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pepito1948
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martedì 4 gennaio 2011
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un mondo senza violenza
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Il titolo originale è HAEVNEN, Vendetta, che richiama il suo presupposto, cioè la violenza. Un disvalore che sembra aver invaso qualsiasi società, anche la più apparentemente avanzata e progressista dell'Occidente come quella nordeuropea (l'azione si svolge in Danimarca), e che, al di là delle forme e dei contesti, non è poi così lontana dalla brutalità quotidiana che appesta alcuni Paesi africani, dove si uccide e si sventrano donne incinte per pura scommessa.
La primordiale reazione alla violenza è appunto la vendetta, tema cardine del film diretto da Susanne Bier, regista con un passato da Dogma poi ritornata al cinema convenzionale.
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Il titolo originale è HAEVNEN, Vendetta, che richiama il suo presupposto, cioè la violenza. Un disvalore che sembra aver invaso qualsiasi società, anche la più apparentemente avanzata e progressista dell'Occidente come quella nordeuropea (l'azione si svolge in Danimarca), e che, al di là delle forme e dei contesti, non è poi così lontana dalla brutalità quotidiana che appesta alcuni Paesi africani, dove si uccide e si sventrano donne incinte per pura scommessa.
La primordiale reazione alla violenza è appunto la vendetta, tema cardine del film diretto da Susanne Bier, regista con un passato da Dogma poi ritornata al cinema convenzionale. La vendetta è la pulsione che ha ispirato interi filoni cinematografici (basti pensare al genere western e non solo) ed ha affascinato, trascinato e coinvolto da sempre masse sterminate di spettatori in tutto il mondo. Perchè questo? Appunto perchè essa è la prima, immediata e spontanea risposta che sgorga dall'Io rispetto ad un'offesa subita. Solo con il sorgere di collettività organizzate in modo centralistico questa risposta è stata avocata dallo Stato e trasformata in "giustizia", ma sempre con qualche riserva inconscia da parte dei singoli, che infatti emerge o prorompe in occasione dei grandi fatti di sangue mostrando il lato peggiore dell'uomo. Alcuni Stati, ieri ed oggi, sono arrivati a normativizzare la vendetta ispirata alla legge del taglione, nonostante l'affermarsi ed il dilagare di dottrine etiche o religiose imperniate sul perdono o sul "porgi l'altra guancia".
Nel film la vendetta non è trattata per conquistare istintivamente lo spettatore alla causa (generalmente il ripristino di un valore violato) del vendicatore, che peraltro qui è un adolescente chiuso nella sua impenetrabilità pietrificata dalla morte della madre e dall'odio verso il padre impotente ed assente; è evidenziata nella sua ambiguità attraverso elementi narrativi che interessano due piani collegati, i genitori ed i figli, tra i quali il rapporto, nei Paesi nordici come altrove, è spesso problematico e difficile. Tra gli adulti un padre che subisce una violenza fisica da un energumeno non reagisce secondo la stessa modalità, fornendo un esempio comportamentale diversamente interpretabile (viltà o rifiuto di inciviltà?), e quando prova a convincere con argomentazioni verbali il suo offensore dell'errore di quella azione rischia di essere ulteriormente colpito. Dai figli (quello del padre offeso ed il suo compagno di scuola orfano di madre che lo libera dalle angherie di un bullo) la mancata "lezione" all'aggressore non viene accettata ed innesca un'alleanza tra debole e forte, tra perdente e vincente (rapporto che alla prova dei fatti si invertirà) che spingerà entrambi verso la vendetta. Ma lo scellerato progetto non riesce, e l'esempio del padre ritenuto inadeguato assumerà ben altro senso agli occhi dei due ragazzi, che dopo questa esperienza non saranno più quelli di prima. Tuttavia, in una società dove serpeggia nella sua multiformità la violenza da chiunque esercitata è sempre giusto o utile astenersi da una reazione diretta e non ad altri delegata finalizzata a compensarne gli effetti? Questo è il dubbio che la Bier lascia intravedere, nonostante il lieto fine: il padre vittima della violenza manesca fa il medico in un ospedale da campo africano, e quando vi giunge un torvo boss squartatore di grembi femminili sofferente per una brutta ferita, lo cura per dovere professionale ma non fa nulla per sottrarlo all'ira vendicatrice della folla esasperata da delitti e turpitudini. Il transfert di identificazione (come l'assunzione della responsabilità morale) è evidente, così come quello assolutorio dello spettatore verso l'autore dell'"omissione di soccorso".
Non aggiungo nulla sugli altri temi affrontati, dalle incomprensioni intergenerazionali e coniugali, alla difficoltà dell'elaborazione del lutto, al bullismo, già abbondantemente altrove trattati. Il film è tutto spostato dalla parte maschile, visto che gli uomini ed i ragazzi sono i veri artefici della storia, con tutte le loro debolezze (molte) e virtù (poche). Il finale appare un po' scontato e convenzionale, con la compresenza sapientemente miscelata di eroismo, intervento salvifico e redenzione.
Qual è il mondo migliore del titolo italiano? Per contrasto quello in cui tutto ciò che è narrato o mostrato non abbia posto, dove la violenza e la conseguente vendetta siano banditi, dove gli esseri umani rifiutino di farsi allontanare dalle proprie diversità e si lascino attrarre dalla comprensione reciproca. Dove non si diventi come ragni solitari, in attesa di aggredire per nutrire se stessi cioè la propria rabbia, arroganza, infallibilità, e ci si senta come formiche, a stretto contatto, pacifiche, egualitarie e solidali, come le ultime inquadrature simboliche tratte dal mondo della natura sembrano suggerirci.
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martedì 9 novembre 2010
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dramma intenso, ma finale troppo conciliante
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Elias (Markus Rygaard) è un ragazzino fragile ed introverso, a scuola lo prendono in giro e soffre per la separazione dei genitori. Christian (Wiliam Johnk Nielsen), invece, ha reagito al dolore per la perdita della madre malata di cancro con rabbia, è in collera con il padre e furioso con il mondo. Diventeranno amici e si troveranno a dover compiere delle scelte che metteranno a rapentaglio le loro stesse vite, mentre i genitori tenteranno di rimettere ordine nelle proprie disorientate esistenze.
La regista danese Susanne Bier si è trovata per le mani una materia narrativa ricca e complessa ed ha saputo muoversi con competenza: non era facile domare l'intreccio di tante storie ed affrontare tutti i temi di questo dramma intenso e, per molti aspetti, convincente.
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Elias (Markus Rygaard) è un ragazzino fragile ed introverso, a scuola lo prendono in giro e soffre per la separazione dei genitori. Christian (Wiliam Johnk Nielsen), invece, ha reagito al dolore per la perdita della madre malata di cancro con rabbia, è in collera con il padre e furioso con il mondo. Diventeranno amici e si troveranno a dover compiere delle scelte che metteranno a rapentaglio le loro stesse vite, mentre i genitori tenteranno di rimettere ordine nelle proprie disorientate esistenze.
La regista danese Susanne Bier si è trovata per le mani una materia narrativa ricca e complessa ed ha saputo muoversi con competenza: non era facile domare l'intreccio di tante storie ed affrontare tutti i temi di questo dramma intenso e, per molti aspetti, convincente. Il motore del film è, almeno nella prima parte, una riflessione interessantissima sui limiti dell'approccio filantropico e umanistico, dell'etica del perdono e del "porgere l'altra guancia" in un mondo dominato dalla violenza e dalla prevaricazione, sviluppata attraverso un parallelismo sorprendente ed incisivo fra gli episodi di bullismo in una scuola danese, l'arroganza rozza e manesca di un operaio di un'autofficina, la crudeltà sguaiata di un signore della guerra africano, tanto da essere quasi un peccato che il ragionamento venga abbandonato nella parte finale, in cui dominano invece altri temi (l'incomunicabilità fra genitori e figli, la difficoltà di educare, il disagio esistenziale, il conflitto interiore). Purtroppo, l'anello debole è una sceneggiatura studiata a tavolino, didascalica nel far accadere sempre ciò che più serve al racconto, ridimensionata da un finale troppo conciliante e risolutivo.
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