sergio dal maso
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domenica 28 giugno 2015
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in un mondo migliore
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Ci vuole molto coraggio per affrontare nello stesso film, in modo diretto e con intenti pedagogici, tematiche complesse e spinose come il disagio esistenziale degli adolescenti, l’incomunicabilità nel rapporto genitori-figli, il valore educativo del perdono e l’inutilità della vendetta. Molto coraggio e una grande sensibilità.
Perché In un mondo migliore della bravissima regista danese Susanne Bier non si ferma in superficie, con una forte tensione etica scandaglia questi temi in profondità, proponendoci differenti chiavi di lettura, su più livelli. Da un lato contrappone realtà sociali completamente diverse come l’apparentemente tranquilla vita di provincia nella civile Danimarca, alternata all’atroce guerra africana nel Darfur, dall’altro cerca di andare alle radici dell’istinto violento e aggressivo insito in tutti gli esseri umani indipendentemente dal benessere economico e dalla realtà culturale che li circonda.
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Ci vuole molto coraggio per affrontare nello stesso film, in modo diretto e con intenti pedagogici, tematiche complesse e spinose come il disagio esistenziale degli adolescenti, l’incomunicabilità nel rapporto genitori-figli, il valore educativo del perdono e l’inutilità della vendetta. Molto coraggio e una grande sensibilità.
Perché In un mondo migliore della bravissima regista danese Susanne Bier non si ferma in superficie, con una forte tensione etica scandaglia questi temi in profondità, proponendoci differenti chiavi di lettura, su più livelli. Da un lato contrappone realtà sociali completamente diverse come l’apparentemente tranquilla vita di provincia nella civile Danimarca, alternata all’atroce guerra africana nel Darfur, dall’altro cerca di andare alle radici dell’istinto violento e aggressivo insito in tutti gli esseri umani indipendentemente dal benessere economico e dalla realtà culturale che li circonda.
Al centro del film ci sono due ragazzini in crisi : Elias, timido e sensibile, preso di mira dai bulli della scuola, e Christian, aggressivo e chiuso in se stesso, in collera con il padre e con il mondo. Entrambi vivono situazioni familiari molto difficili, specialmente il rapporto con la figura paterna. Il primo a causa della lontananza del padre, medico volontario in Africa, e per la recente separazione dei genitori, il secondo perché non è ancora riuscito a superare il durissimo trauma della morte della madre malata di cancro. Inevitabilmente finiscono per soccorrersi a vicenda e diventare amici inseparabili. Soprattutto Elias, fragile e in balia dei teppistelli che lo molestano, ha bisogno della personalità forte e protettiva di Christian. Di fronte alle angherie dei bulli non gli serve a nulla l’esempio del padre con i suoi valori pacifici e nonviolenti.
La figura del medico Anton è eticamente straordinaria e in teoria altamente educativa, invece è proprio la scena del padre inerte e indifeso di fronte all’aggressione del rozzo e prepotente meccanico che innesca la drammatica spirale psicologica che porta i due ragazzi a scegliere la violenza e la vendetta. Se per Anton il porgere cristianamente l’altra guancia è una scelta maturata e fondata su convinzioni profonde, per Christian ed Elias l’urgenza è l’affermazione della propria identità e il riscatto immediato dei presunti torti subiti. Neppure gli “alti” principi di Anton però sono al riparo dal dubbio e dalla crisi interiore.
Nella civile e democratica Danimarca il suo rigore etico non è neppure scalfito dalla prepotenza e della maleducazione del manesco meccanico, ma di fronte alla crudeltà e al sadismo dello schifoso signore della guerra africano il rifiuto della violenza mostra tutti i suoi limiti e non ha alcun senso parlare di perdono. Non c’è quindi nessuna alternativa tra il soccombere alla violenza e l’uso della forza ? o anche, la scelta del perdono e il rifiuto della violenza sono valori etici assoluti o dipendono dalle circostanze ? In un mondo migliore, pur eccedendo in qualche passaggio a mio parere un po’ troppo schematico, non confeziona risposte facili e scontate, piuttosto ci provoca, ci stimola e invita a riflettere sulla storia e sui protagonisti, tutti delineati con oculatezza e grande spessore psicologico. Fondamentale è la tensione etica che il film riesce a trasmettere, la capacità di emozionare e di coinvolgere lo spettatore.
Merito prima di tutto di attori straordinari, a cominciare dai due amici interpretati in modo superbo da William Nielsen (Christian) e Markus Rygaard (Elias). Magnifica anche la prova di Mikael Persbrandt che riesce a trasmettere la fermezza interiore ma anche l’inquietudine del medico Anton di fronte alle difficili scelte che deve compiere. Non va dimenticata l’ottima regia di Susanne Bier, giustamente premiata con il premio Oscar per il miglior film
straniero. Una regia atipica, innovativa, nel solco del Dogma 95 di Lars Von Trier, di cui la regista è stata allieva, che non teme l’uso della macchina da presa a mano, con frequenti “zoomate” e primi piani sui volti e sugli sguardi. Una regia ottimamente integrata con una coraggiosa fotografia dai colori caldi e intensi negli scenari africani, freddi e foschi nella parte danese. Tutti questi fattori imprimono al film tensione emotiva e forza morale ma senza lanciare messaggi moralisti o buonisti. La possibilità di un mondo migliore, sembra dirci la Bier, non dipende da aspetti economici o dalla latitudine dove si vive, e non basta neanche l’educazione, ciò che più conta è la capacità di ciascuno di affrontare e risolvere la propria crisi interiore con una maturazione etica dei propri valori.
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stefano capasso
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martedì 2 giugno 2015
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il percorsa tra vendetta e perdono
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Alla morte della madre Christian si trasferisce in Danimarca per continuare gli studi. Nella nuova scuola incontra Elias col quale svilupperà presto un amicizia. Sono due adolescenti molto diversi. Duro e determinato il primo, timido e pauroso il secondo. Anche Elias sta affrontando un periodo difficile vista l’imminente separazione dei genitori. Christian si erge a difensore dei diritti di Elias, usando quella forza fisica che lui non è in grado di imporre, e finendo per estendere questa attitudine anche al padre dello stesso, un uomo che cerca di anteporre sempre il dialogo e la ragione anche quando sembra davvero inopportuno.
In un crescendo di episodi di tensione i due ragazzi finiranno per trovarsi coinvolti in un grave incidente.
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Alla morte della madre Christian si trasferisce in Danimarca per continuare gli studi. Nella nuova scuola incontra Elias col quale svilupperà presto un amicizia. Sono due adolescenti molto diversi. Duro e determinato il primo, timido e pauroso il secondo. Anche Elias sta affrontando un periodo difficile vista l’imminente separazione dei genitori. Christian si erge a difensore dei diritti di Elias, usando quella forza fisica che lui non è in grado di imporre, e finendo per estendere questa attitudine anche al padre dello stesso, un uomo che cerca di anteporre sempre il dialogo e la ragione anche quando sembra davvero inopportuno.
In un crescendo di episodi di tensione i due ragazzi finiranno per trovarsi coinvolti in un grave incidente.
Ho trovato questo film di Susanne Bier avvincente per la capacità narrativa e l’intreccio che coinvolge tutti i protagonisti su più livelli. Il tema dominante sembra essere il conflitto tra la vendetta e il perdono che tutti i protagonisti si trovano a sperimentare e a cercare di migliorare per approssimazione con l’esperienza. Ognuno ha un confine preciso che divide la capacità di perdonare dalla necessità di reagire, ed è importante conoscerlo e perchè le due parti abbiano possibilità di esistere ed essere integrate. C’è poi l’aspetto del sentimento di abbandono che vivono i ragazzi; le difficoltà in cui sono coinvolti gli adulti ricadono su di loro pesantemente; sono loro a pagare il prezzo più alto dell’incapacità genitoriale di essere presnti. Per tutti c’è comunque un percorso che porta ad un nuovo e più sano equilibrio dopo aver attraversato la crisi
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angelo umana
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martedì 24 febbraio 2015
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aggressività e vendette
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Love is all you need è un altro film della regista Susanne Bier, più recente di questo Haevnen (Vendetta o In un mondo migliore) del 2010, Oscar come miglior film straniero. Tutto ciò di cui abbisognamo è l’amore, la pace, la fratellanza, porgere magari l’altra guancia perché la violenza chiama altra violenza. E’ quanto succede In un mondo migliore. Una famiglia ha marito e moglie in via di separazione, lui (Mikael Persbrandt) fa la spola tra Danimarca e Somalia dove è medico in un campo profughi. L’altra famiglia è formata dal papà (Ulrich Thomsen) che è spesso in viaggio d’affari, il figlio Christian e la nonna, a casa della quale i due si sono trasferiti dopo la morte per tumore della madre di Christian.
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Love is all you need è un altro film della regista Susanne Bier, più recente di questo Haevnen (Vendetta o In un mondo migliore) del 2010, Oscar come miglior film straniero. Tutto ciò di cui abbisognamo è l’amore, la pace, la fratellanza, porgere magari l’altra guancia perché la violenza chiama altra violenza. E’ quanto succede In un mondo migliore. Una famiglia ha marito e moglie in via di separazione, lui (Mikael Persbrandt) fa la spola tra Danimarca e Somalia dove è medico in un campo profughi. L’altra famiglia è formata dal papà (Ulrich Thomsen) che è spesso in viaggio d’affari, il figlio Christian e la nonna, a casa della quale i due si sono trasferiti dopo la morte per tumore della madre di Christian.
Quel vuoto affettivo ha fatto del ragazzo un concentrato di aggressività e di durezza – ed è questo, mi pare, il tema centrale del film più che il mondo migliore - non perdona nulla ad alcuno e si convince presto che nessun bullo della scuola lo colpirà, almeno non se colpisci duro la prima volta. Protesta col padre, lo accusa di quella mancanza di cui non si può dar pace: tu dicevi che la mamma sarebbe guarita … che non soffriva … desideravi la sua morte. Elias, il figlio della prima coppia, vessato da compagni di scuola più grandi e troppo dispettosi, soffre dell’assenza del padre, dice alla madre di odiarla (l’attrice è Trine Dyrholm, la stessa di Love is all you need).
Per amicizia e per curiosità è fatale che segua il determinato Christian, appena trasferitosi nella sua stessa classe. Dal reagire ai soprusi o dalle vendette di Christian scaturiscono drammi più grandi: è quanto il buon Mikael voleva dimostrare a Elias, al suo fratellino e all’amico Christian. Traslando lo spirito di vendetta dalla Danimarca alla Somalia, la sceneggiatura fa sì che nel deserto somalo dove il dottore lavora, un cattivissimo Big Man - che apriva col coltello la pancia delle donne incinte dopo aver scommesso coi suoi “bravi” sul sesso dei nascituri - venga linciato dai poveracci del campo profughi, vittima della sua stessa violenza.
Si può dubitare che Mikael e Trine (i veri nomi degli attori), dopo tanti drammi, dopo i Ti amo … ho commesso tanti errori di lui e i pensavi soltanto a lei … vorrei perdonarti ma non posso di lei, si riuniscano? Si può dubitare che i ragazzi rinsaviscano e concludano sani e salvi la vicenda? Si può dubitare che Ulrich ritrovi suo figlio e che con lui tutto torni come prima? Nemmeno si poteva dubitare che Mikael tornasse a prestare la sua opera umanitaria nel campo profughi somalo, buono com è, e che l’Oscar come miglior film straniero andasse a questo film molto “corposo”, con tanta Somalia e bei paesaggi e di ben 113 minuti (!), che avrà dato a Hollywood nel 2010 la giusta dose di buone emozioni.
P.S. Anche nella realtà, come nei film, la cattiveria interiore fa brutte le facce, mentre i buoni sono buoni dentro e belli fuori.
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lisa casotti
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lunedì 2 settembre 2013
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un mondo in equilibrio
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In un mondo migliore il perdono vince sulla vendetta (Heavnen, uguale vendetta, è infatti il titolo originale danese – che appare non a caso a inizio e a fine pellicola, come a sottolineare il concetto – adattato per la distribuzione e forse per ansia di saltare alle conclusioni in “un mondo migliore”): questo sembra suggerire l’epilogo un po’ semplicistico di un film tutt’altro che semplice e banale perché cerca di indagare l’origine della violenza e la validità della pratica e del messaggio della non violenza.
Ricordo di aver visto In un mondo migliore a una settimana dai fatti di Oslo (l’attentato per opera di Breivik del 22 luglio 2011), il che ne ha amplificato certamente l’effetto.
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In un mondo migliore il perdono vince sulla vendetta (Heavnen, uguale vendetta, è infatti il titolo originale danese – che appare non a caso a inizio e a fine pellicola, come a sottolineare il concetto – adattato per la distribuzione e forse per ansia di saltare alle conclusioni in “un mondo migliore”): questo sembra suggerire l’epilogo un po’ semplicistico di un film tutt’altro che semplice e banale perché cerca di indagare l’origine della violenza e la validità della pratica e del messaggio della non violenza.
Ricordo di aver visto In un mondo migliore a una settimana dai fatti di Oslo (l’attentato per opera di Breivik del 22 luglio 2011), il che ne ha amplificato certamente l’effetto. Qui siamo in Danimarca (e specularmente in un ospedale da campo in Africa) e non in Norvegia, ma il mito dei Paesi scandinavi lindi, organizzati e civilizzati è lo stesso. Mentre il razzismo/bullismo esiste eccome, e la cieca violenza si insinua e si fa strada in un ragazzino di dodici anni che scarica da Internet le informazioni necessarie per fabbricare una bomba e che ha capito che per farsi rispettare dai gradassi bisogna picchiare per primi e più forte. E dove i rapporti famigliari sono un pretesto per mettere a nudo fragilità profonde della nostra società.
La critica non è entusiasta, ma c’è qualcosa di bello e “delicato” in questo film (che riesce a creare anche suspense), qualcosa che tocca le corde dell’anima e non si palesa... a voi scoprirlo. Forse “un mondo migliore” è quello dove bene e male non si annullano, ma trovano un equilibrio.
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filippo catani
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venerdì 16 agosto 2013
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in un mondo migiore la violenza non esisterebbe
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Danimarca. Due bambini con difficoltà simili finiscono per fare amicizia. Uno è timido e introverso e sta soffrendo terribilmente per la separazione dei due genitori. Come se non bastasse il ragazzo è costantemente preso di mira da una banda di bulletti della scuola e il padre è spesso in Africa dove svolge la professione di medico. L'altro ragazzo è violento e sofferente perchè ha visto la madre morire di cancro e il padre è spesso a Londra per lavoro.
Come spesso accade purtroppo l'incontro tra due infelicità finisce con il generare grossi problemi. E' il caso dei due bambini protagonisti della storia che, lontani anni luce dallo stereotipo del bambino buono e bravo, si infileranno in una terribile spirale di violenza che rischierà di fare morti.
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Danimarca. Due bambini con difficoltà simili finiscono per fare amicizia. Uno è timido e introverso e sta soffrendo terribilmente per la separazione dei due genitori. Come se non bastasse il ragazzo è costantemente preso di mira da una banda di bulletti della scuola e il padre è spesso in Africa dove svolge la professione di medico. L'altro ragazzo è violento e sofferente perchè ha visto la madre morire di cancro e il padre è spesso a Londra per lavoro.
Come spesso accade purtroppo l'incontro tra due infelicità finisce con il generare grossi problemi. E' il caso dei due bambini protagonisti della storia che, lontani anni luce dallo stereotipo del bambino buono e bravo, si infileranno in una terribile spirale di violenza che rischierà di fare morti. Questo perchè i due ragazzi decidono di rispondere alla violenza con la violenza innescando quell'inevitabile cortocircuito che i fautori e difensori della cosiddetta "legge del taglione" non riescono a comprendere. Questo è l'insegnamento che il padre di uno dei due cerca di dare ai ragazzi sulla violenza che genera violenza all'infinito. Allo stesso tempo però l'uomo, che svolge la professione di dottore, si troverà davanti a un classico dilemma etico: è giusto operare un uomo che di "mestiere" fa il signore della guerra e si diletta a squartare il ventre delle donne incinta per verificare il sesso del nascituro sul quale in precedenza aveva organizzato un ciclo di scommesse? Resta comunque anche l'amara riflessione sui nostri bambini che troppo spesso vengono lasciati soli ad affrontare le prime difficoltà della vita dovendo magari fare i conti con eventi improvvisi e sconvolgenti come la perdita di un genitore o la separazione della famiglia. Il tutto mentre a scuola si fatica ad arginare quel fenomeno odioso e stupido che è quello del bullismo che purtroppo può segnare a lungo la psiche di un bimbo. Oscar come miglior film straniero a questo film dell'ottima regista Bier che si avvale di un buon cast per raccontare una difficile storia con intricate complicazioni morali (e non è la prima volta che lo fa). E' vero che forse il finale rischia di essere un po' troppo assolutorio all'interno dell'economia di una pellicola del genere ma allo spettatore il messaggio era già arrivato forte e chiaro.
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ashtray_bliss
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domenica 24 febbraio 2013
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creare un mondo migliore e' impossibile.
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Nonostante il titolo originale sia semplicemente Haevnen, che significa vendetta in lingua danese, (e da non confondersi con la simile parola inglese heaven di tutt'altro significato) Il titolo della verione internazionale In a Better World, e di conseguenza quello della versione italiana In Un Mondo Migliore, funziona paradossalmente, perche' guardando questo film ci si accorge e ci si convince sempre piu' che non potremo mai creare un mondo migliore, un mondo di pace e fratellanza perche' la cattiveria, la rabbia, la voglia di imporsi e pravalere sugli altri (concetto che annulla l'idea di uguaglianza) e' innato nella natura umana e chi piu' chi meno, coesiste in tutti noi.
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Nonostante il titolo originale sia semplicemente Haevnen, che significa vendetta in lingua danese, (e da non confondersi con la simile parola inglese heaven di tutt'altro significato) Il titolo della verione internazionale In a Better World, e di conseguenza quello della versione italiana In Un Mondo Migliore, funziona paradossalmente, perche' guardando questo film ci si accorge e ci si convince sempre piu' che non potremo mai creare un mondo migliore, un mondo di pace e fratellanza perche' la cattiveria, la rabbia, la voglia di imporsi e pravalere sugli altri (concetto che annulla l'idea di uguaglianza) e' innato nella natura umana e chi piu' chi meno, coesiste in tutti noi.
Non c'entra se si vive in posti poveri e pericolosi come il Sudan, in Africa, o in luoghi borghesi come la Danimarca, da nessuna parte e' possibile sperare in un mondo migliore finche' persiste la dittatura della violenza in tutte le sue forme. Di questo ci parla essenzialmente la Bier in questa pellicola pluripremiata. La violenza e la cattiveria sono innati nella natura umana e' sono cio che ostacola la creazione di un mondo diverso, piu' equo e giusto piu' onesto e sicuro.
Ma attorno a questo argomento principale, la Bier, ci condisce tematiche sempre attuali come l'incomunicabilita' tra genitori e figli, la difficile elaborazione di un lutto, specialmente quello di un genitore (come nel caso di Christian che perde prematuramente la madre), il bullismo e l'emarginazione scolastica (nel caso di Ilias) e i problemi legati ai genitori che stanno divorziando.
Il film, inoltre, per evidenziare al meglio l'argomento attorno al quale ruota, si divide in due livelli paralleli di narrazione: Il primo e' quello ambientato nei sobborghi ricchi e benestanti della Danimarca e segue principalmente il susseguirsi di eventi dei due ragazzini, Christian e Ilias. Il secondo e' quello ambientato in Sudan, nel campo ospedaliero dove lavora come medico Anton, padre di Ilias, e dove viene costantemente a contatto con la violenza, sotto forma di donne incinta sventrate che vengono recuperate e soccorse. Le due storie parallele hanno come punto in comune il personaggio di Anton il quale da una parte e' medico-testimone delle violenze e brutalita' che regnano nei paesi e tribu' africane poco istruite, dove persistono superstizione e riti barbari e dove le donne vengono massacrate in nome di mere scommesse; dall'altra parte del mondo, invece, in Danimarca assiste alla arroganza e propensione alla violenza delle persone come il 'meccanico' che lo insulta e lo schiaffeggia e l'influenza piuttosto negativa di Christian sul figlio Ilias.
Infatti i due ragazzini diventano inseparabili ma il rapporto che c'e' tra i due non e' (almeno non da subito) di amicizia e dunque di uguaglianza bensi' una rapporto piuttosto ineguale e despotico. Christian difende Ilias dai bulli che lo vessano a scuola e si vendica pesantemente con uno di loro minacciandolo addirittura con coltello. Da quel momento Christian tiene in pugno Ilias, ragazzino remissivo, introverso, fragile e timido, rendolo suo complice in un piano pericoloso. Quest'ultimo infatti si mette in testa l'idea di creare una bomba e far esplodere l'auto del mecchanico che insulto Anton, papa' di Ilias. Ovviamente dietro la voglia di far esplodere meterialmente la bomba c'e' quella di far esplodere e lasciar andare tutta la rabbia repressa, il rancore, il dolore che provava ma che non riusciva ad esternare se non tramitte la violenza (verbale o fisica). I due pianificano tutto e procedono secondo i piani ma sfiorano una tragedia senza precedenti. Ilias rimane anche ferito durante l'esplosione nel tentativo di allontanare dalla bomba una madre e la sua bambina.
A quel punto arriva la nemesi e la catarsi degli spettatori: Christian comprende la gravita' delle proprie azioni e tenta anche il suicidio per poi crollare tra le mani apprensive e paterne di Anton. Ma si riconciliera' anche col proprio padre, uomo anch'esso introverso e addolorato per la perdita di sua moglie ma padre piuttosto assente dalla vita del figlio. Dopo giorni riuscira' a riavvicinarsi anche con l'amico Ilias, il quale lo perdona.
Finale sicuramente buonista e positivista che pero' non annulla il messaggio che tenta di mandare agli spettatori: Qual'e' il mondo migliore che vogliamo creare? Possiamo veramente sperarci?
In realta' la risposta, secondo la regista, e' negativa. "Siamo tutti assassini, uomini, donne e bambini, tutti" dira' BigMan (l'assassino tribale del Sudan) ad Anton nel campo ospedaliero, prima di essere linciato dalla folla. E' ha ragione, cosa della quale se ne rende ben presto conto lo stesso Anton, anche a casa sua, nella tanto progredita e democratica Danimarca.
La crudelta' e cattiveria e' innata nelle persone, anche nei piu' piccoli, e si manifesta sottoforma del bullismo a scuola, della vendetta a suon di violenza e minaccie su quest'ultimi (da parte di Christian), sul cercare continuamente scuse per attaccare il prossimo. La morale a volte non serve, perche' viene ofuscata dalla irrefrenabile voglia di vendetta verso gli altri come ultima arma per esprimere se stessi, per scaricare i propri sentimenti (dolore, rabbia, nervosismo....)
Ben diretto e ben recitato In A Better World e' un film amaro ma dal finale che assolve e perdona i propri personaggi regalando anche agli spettatori uno spiraglio di speranza per il futuro e il mondo che verra'.
La pellicola rappresenta una realta' (e tematica) non originale ma anzi ben nota e pur sempre cara al cinema indipendente europeo tanto da vincere svariati premi a mostre e festival europei nonche' accaparrarsi anche la tanto ambita stautetta d'oro.
Prodotto valido ma non incisivo. Consigliato.
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q.s.b
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sabato 14 aprile 2012
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per una volta é bello esser "buonisti"
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Vero, il finale conciliante stride... ma la durezza di ciò che il film racconta resta incisa nell'animo dello spettatore, un esempio su tutti, il linciaggio, scena non certo consolatoria.
Forse un finale tragicamente reale non sarebbe servito a nessuno.
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chaoki21
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mercoledì 29 febbraio 2012
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un film a metà, ma da vedere
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Il film della regista danese Susanne Bier ha il merito di sottolineare agli occhi dello spettatore alcuni elementi non marginali delle nostre società “occidentali“: il difficile rapporto tre i genitori e i figli; la presenza anche tra gli adolescenti di forme di sadismo e di perversione; il rapporto non sempre improntato alla autenticità tra studenti e corpo insegnante. La conclusione del film opera una sorta di riduzione di tutte le lacerazioni evidenziate nei punti sopra elencati, e tuttavia indica l’unica possibile, provvisoria, soluzione alle dinamiche negative interpretate dagli attori.
Sulla difficoltà del rapporto tra genitori e figli la regista coglie due esempi: quello di un orfano, Christian, che colpevolizza il proprio padre della morte della madre, pensando che il genitore non abbia fatto tutto quanto era possibile per salvarla, e quello di un altro ragazzo, Elias, che attribuisce, all’inverso, alla madre le responsabilità per l’imminente separazione tra i genitori stessi.
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Il film della regista danese Susanne Bier ha il merito di sottolineare agli occhi dello spettatore alcuni elementi non marginali delle nostre società “occidentali“: il difficile rapporto tre i genitori e i figli; la presenza anche tra gli adolescenti di forme di sadismo e di perversione; il rapporto non sempre improntato alla autenticità tra studenti e corpo insegnante. La conclusione del film opera una sorta di riduzione di tutte le lacerazioni evidenziate nei punti sopra elencati, e tuttavia indica l’unica possibile, provvisoria, soluzione alle dinamiche negative interpretate dagli attori.
Sulla difficoltà del rapporto tra genitori e figli la regista coglie due esempi: quello di un orfano, Christian, che colpevolizza il proprio padre della morte della madre, pensando che il genitore non abbia fatto tutto quanto era possibile per salvarla, e quello di un altro ragazzo, Elias, che attribuisce, all’inverso, alla madre le responsabilità per l’imminente separazione tra i genitori stessi. Come si sa si tratta di due reazioni molto usuali tra i minori che hanno la sfortuna di vivere situazioni del genere. Come in una sorta di gioco degli specchi , i soggetti rielaborano le proprie sofferenze punendo e autopunendosi portando con sé e raddoppiando ogni volta “ la posta “, costruendo così via via una carica di distruzione e/o di autodistruzione apparentemente inarrestabile.
Il rapporto tra gli insegnanti e Elias non si rivela particolarmente positivo per i docenti: essi minimizzano la portata degli atti di bullismo cui Elias è soggetto, attribuiscono persino all’imminente separazione dei genitori le difficoltà di rapporto del ragazzo con gli altri compagni di classe, e in specie, di quello con il proprio persecutore. Anche le iniziative didattiche, come l’autogestione, che dovrebbero avere come centro l’individualità degli studenti viene invece piegata alle aspettative o alle esigenze dei docenti stessi. Forse è veramente difficile pensare altrimenti, ma sembra che la regista voglia proprio confermarci la fondamentale solitudine entro cui, specialmente i ragazzi in età scolare, devono iniziare a “fare i conti con il mondo”.
E veniamo all’aspetto, che correttamente è stato ritenuto il più preponderante: come reagire di fronte alla manifestazione del male, o di comportamenti latamente quando non scopertamente criminali. Christian ha perso la madre da poco, ha un passato scolastico da girovago ed ha, da sempre, dovuto rapportarsi con persone più prepotenti e meno accomodanti di lui. Giunto nella nuova scuola fa amicizia con Elias, vittima del bullo della classe. Quest’ultimo però viene aggredito da Christian e ridotto a mal partito. La cosa impensierisce i rispettivi genitori dei due ragazzi che tentano di intavolare con i figli una riflessione sulla necessità di non farsi giustizia da soli, di far prevalere sempre l’aspetto razionale sull’emotività. Il padre di Elias, medico attivamente impegnato anche in una organizzazione umanitaria in Africa, arriva al punto di scontrarsi, non opponendo alcuna resistenza, con un altro uomo decisamente più violento pur di tentare di far comprendere al proprio figlio l’importanza, per lui, di astenersi dall’uso di mezzi violenti di persuasione. Significativamente in quella sequenza Christian fa notare al padre di Elias di non essere convinto che l’adulto violento, il meccanico manesco, abbia compreso la necessità di non essere prepotente, e questo perchédi fronte a comportamenti decisamente e inequivocabilmente lesivi della dignità delle persone, l’unica reazione efficace, per Christian, è rispondere con la violenza alla violenza.
Ora è proprio questo il fuoco centrale del film, il riflettere, con Christian, della necessità, in determinate situazioni, di non poter fare a meno dell’uso della violenza è lecito? E se sì, tale orientamento è da intendersi in senso assoluto? Esiste, insomma, una barriera che non può essere in ogni caso infranta da parte di chi subisce le azioni violente ed è manifestamente vittima delle prepotenze altrui? La pulsione a compiere il male è totalmente gratuita o può trovare nelle strutture della società attuale una qualche, possibile, diga? Non c’è dubbio che la regista lascia aperta la questione, in questo senso non spinge oltre l’analisi della situazione, lasciando allo spettatore di riflettere e di trovare da solo le risposte che considera più opportune. A questo proposito, ad esempio, la ferocia delle violenze a cui il padre di Elias assiste nel paese africano dove opera sono il doppio simbolico della più lieve, almeno apparentemente, violenza di cui lo stesso figlio è vittima.
Il finale potrebbe essere inteso come una sorta di concessione, estranea alla struttura del film stesso, all’happy end, o per lo meno a quello che si usa definire come un finale “buonista”. E’ possibile che questo ci sia, e molti critici e commentatori hanno interpretato così le ultime parti della pellicola. Tuttavia, sia pure con scarsa verosimiglianza, la regista tocca un aspetto non meno importante per una corretta interpretazione della sua opera: solo all’interno di una rete di affetti reali e non fasulli si può sperare che le tantissime spirali di odio e di prepotenza possano essere diminuite o rese meno pericolose. E’ infatti osservazione comune il ritenere come, generalmente, le persone che si rendono protagonisti di gravi atti lesivi o criminali nei confronti degli altrisono quelle stesse persone che in un modo o nell’altro sono stati oggetto a loro volta di violenze e di comportamenti delinquenziali.
E’ questo certo un pensiero condiviso da tanti, ma è proprio questo quello che la regista ci vuole dire? Secondo me il finale “buonista” non consiste nel pensare che i due ragazzi si riconciliano con i propri genitori, consiste nel ritenere che basta l’affetto della famiglia per emarginare definitivamente l’insorgere delle violenze.
Il film affronta e sfiora quindi tematiche decisamente attuali, e probabilmente avvertite con maggiore acutezza in quelle società del Nord Europa tradizionalmente attente ai temi del rispetto della persona e dell’uso, o del non uso, dei mezzi coercitivi. L’argomento, a ben vedere, non è neanche una novità in sé, basterà pensare ad altri film, che toccano però anche altri temi, come Lasciami entrare o il più datato l’Allievo.
Nunzio Pizzuto
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xquadro
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lunedì 2 gennaio 2012
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vendetta o giustizia? un film ambizioso
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Fino a che punto è giusto rispettare le regole, se si ritiene di incoraggiare con questo atteggiamento il perpetrarsi di un'ingiustizia? E' l'interrogativo attorno al quale ruota il film di Susanne Bier, brava e ambiziosa regista danese che con questa opera si è imposta all'attenzione della critica mantenendo alto l'interesse per il cinema danese dopo l'exploit - ormai un po' datato - della scuola di Lars Von Trier. La frammentazione delle famiglie e le difficoltà che scontano le istituzioni - scuola e autorità costituita(in questo caso la polizia)- nell'entrare in contatto col mondo dei giovani e con la loro misteriosa psicologia rappresentano certamente un'emergenza del presente, ma sono solo alcuni degli aspetti su cui la regista ha deciso di far sentire la sua voce.
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Fino a che punto è giusto rispettare le regole, se si ritiene di incoraggiare con questo atteggiamento il perpetrarsi di un'ingiustizia? E' l'interrogativo attorno al quale ruota il film di Susanne Bier, brava e ambiziosa regista danese che con questa opera si è imposta all'attenzione della critica mantenendo alto l'interesse per il cinema danese dopo l'exploit - ormai un po' datato - della scuola di Lars Von Trier. La frammentazione delle famiglie e le difficoltà che scontano le istituzioni - scuola e autorità costituita(in questo caso la polizia)- nell'entrare in contatto col mondo dei giovani e con la loro misteriosa psicologia rappresentano certamente un'emergenza del presente, ma sono solo alcuni degli aspetti su cui la regista ha deciso di far sentire la sua voce. In realtà in una società violenta, dove si impongono prevaricazione ed egoismo, arroganza e desiderio di giustizia personale, il rischio è che ad ogni giro di spirale il livello cresca e che alla fine ogni reazione, seppur motivata da una volontà di giustizia, possa produrre l'irreparabile. Il film corre su questo filo, estendendolo dai bambini agli adulti. In un caso si supera la soglia e la vendetta rischia di partorire un imperdonabile debito sociale, in un altro si infrangono i doveri etici perseguendo però un fine altrettanto - e forse ancora più - 'morale'. In entrambi i casi si arriverà ad una redenzione con inevitabili cicatrici ma "costruttiva". Finale di speranza, riparatore, che lascia un po' spiazzati. Comunque, niente male.
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nigel mansell
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venerdì 18 novembre 2011
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la violenza che non puoi cancellare
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La violenza che non puoi cancellare, anche nelle società apparentemente perfette come quelle del nord europa: e i tragici fatti accaduti quest'anno in Norvegia lo testimoniano.
Il confronto con una patinata Dannimarca ed un'essenziale villaggio africano: nessuno dei due è riuscito ad eliminare la violenza.
Ottima fotografia e tensione che viene mantenuta viva per tutto il film. Qualche attore mi è parso alquanto inespressivo, ma forse la colpa è da imputare al doppiaggio che rende tutto finto o forse al carattere nordico diverso dal nostro.
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