Una pallina da tennis che rimbalza sulla rete. Una sequenza al ralenty e una voce fuori campo che accompagnano, solenni, quella pallina metafora del caos che governa il mondo. E’ tutto qui, racchiuso nel fantastico e indimenticabile minuto iniziale, il senso dell’ultimo film di Woody Allen, perfetta sintesi della casualità del vivere, in cui ogni evento è frutto del caso, della fortuna, delle coincidenze ingovernabili.
A Chris, giovane irlandese ex-stella del tennis mondiale, ogni cosa sembra andare per il verso giusto, tutto nella sua vita volge incredibilmente al meglio, seppur tra vicissitudini drammatiche che si susseguono in un crescendo addirittura epico, grazie ad una capacità di giocare con la tensione e la suspence che Allen ci aveva sin qui tenuto (chissà perché) nascosta. In questo senso dunque Match Point assomiglia a un’opera di Dostoeskij, all’interno della quale si muove, leggero e sfuggente, il protagonista di un romanzo di Maupassant. Un Bel-Ami che si aggira tra le pagine di Delitto e Castigo (anche se sarebbe meglio dire di Delitto senza Castigo), con un cinismo e un distacco che rimandano al miglior noir.
Ed a chiudere il cerchio, perfetto, lo spiazzante finale, un anello che (ancora al ralenty), sembra danzare nell’aria, sospeso tra tempo e destino, riportandoci al principio del film, alla visione filosofica e antideterministica dell’universo entropico del regista.
Solenne ed essenziale, colto e raffinato, capolavoro fuori dal tempo.
Grazie Woody.
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