L'imboscata

Ci è venuta addosso una strana impressione, a veder questa Imboscata; un'impressione, sapete, come quando si vede in una fotografia, in una lettera, sorridere, parlare una persona morta da poco, come se fosse viva.
Questa Imboscata è infatti uno degli ultimi film francesi prima della batosta, a sette, otto mesi dalla disfatta. Ci pare ancora di vedere nei settimanali le fotografie del film in lavorazione vicino a quello delle attualità, vicino ai reportage della "guerra strana" che deve ancora scatenarsi. Può darsi che sia un'illusione ma ci pareva di assistere in questo film ai funerali della Francia, di una certa Francia potente ma tarata, intelligente ma di un'intelligenza riflessa e viziosa.
Anche, nei film, ci sono gli elementi da quadri. Dal regista eccellente che è quel Robert Siodmak che si era fatto notare sin dal tempo del muto a un Chevalier primo attore ancora vegeto, in gamba, ma vecchierello, immagine ancora amabile di una vita in declino.
Quando nel film si vedono i poliziotti alla Maigret andare in traccia della verità umana del caso, ci veniva fatto di pensare a un eccellente scrittore, il Bernanos, che ha fatto un romanzo psicologico e criminoso che è un capolavoro. Questo Bernanos, dopo Monaco, è fuggito davanti alla guerra. E anche l'Imboscata, che è un film criminale, sembra un'opera che fugge davanti alla guerra.
La guerra è un fenomeno collettivo, mentre i "pezzi di cronaca", anche i più grossi sono accidenti della vita quotidiana. Fanno molta paura, ma insomma le probabilità di cascarci dentro come attori sono minime. Ecco la ragione del loro successo psicologico. Loro, gli interpreti del film, sono nei guai ma tu ne sei fuori. Stai chiotto chiotto in poltrona a goderti la vicenda. Poi fuori ti attende una calma sera d'aprile, la moglie brava, la tovaglia bianca sulla tavola.
Secondo la secca definizione del Clausewitz, la guerra "è la continuazione della politica estera con altri mezzi". E sarebbe la verità dell'Imboscata se il film precedesse una vittoria e non una disfatta. Date le cose avvenute assume invece una curiosa luce d'acquario; è un film estremamente intelligente, ben fatto. Quando Chevalier canta nel film e Marie Déa lo guarda con amorosa ironia, il tempo sembra fermarsi; sembra riacquistar quasi la "durata" che era propria ai Clair, agli Allegret dei bei giorni. Poi l'accanito montaggio porta le ombre, affrettate, finali. Questa Marie Déa, ragazza nutrita di pepe, nera come le danzatrici che i romani traevano da Cadice, apparteneva a quell' ultima leva dell'industria che aveva cantato se stessa nella Entrée des artistes che aveva avuto per protagonista Jouvet, interprete di Giraudoux, maestro di giovani attori. Nella prima parte del film ci dovrebbe essere del "rosa", secondo il gergo degli esercenti; ma non vi fidate: anche quella è nera, nerissima, c'è l'odore di quei letti di cui parla Verlaine, letti pregnanti, disfatti, "che si spalancano sull'ombra".
Da Bertoldo, 18 Aprile 1941