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Science+Fiction 20+20: dalla guerra fredda alla pandemia

Definita da Umberto Eco “termometro delle tematiche in discussione” la fantascienza al festival di Trieste non è mai stata così simile alla realtà.
di Paolo Lughi

domenica 8 novembre 2020 - mymovieslive

“Termometro delle tematiche in discussione”. Così Umberto Eco definiva la fantascienza già nel lontano 1964, in uno specifico saggio del suo celebre “Apocalittici e integrati”, pietra miliare nella valorizzazione della cultura di massa. Ma un anno prima, nell’estate 1963, l’allora trentenne Eco (non a caso poi nel 1965 nel direttivo del primo Salone del fumetto di Lucca), aveva partecipato in giuria al primo Festival del Film di Fantascienza di Trieste, rassegna nata nel clima della Guerra fredda e pioniera del genere al mondo. Con lungimiranza, Eco e gli altri premiarono il capolavoro La jetée di Chris Marker (oggi giudicato fra i 50 migliori film di sempre) e L’uomo dagli occhi a raggi X di Roger Corman (che fu presente a Trieste).
 

Quasi 60 anni dopo, con il nome di Science+Fiction, il Festival triestino continua annualmente a svolgersi (come del resto il Salone di Lucca), nonostante una ventennale interruzione e il fatto che all’epoca la sua nascita fosse stata una vera sfida.
Paolo Lughi

Insieme a Eco, il Festival aveva infatti contribuito a sdoganare culturalmente la fantascienza in Italia, fino ad allora considerata (proprio come il fumetto) poco più di un infantile passatempo. “Fantascemenza” l’aveva definita Mike Buongiorno a “Lascia o raddoppia?”. 20 anni (1963-1983) durò quella prima stagione del Festival triestino, premiando fantafilm d’autore firmati da Losey, Godard, Landis, Zulawski, e ospitando scrittori quali Aldiss, Pohl, Arthur C. Clarke, che nel 1968 mostrò in anteprima i bozzetti di 2001: Odissea nello spazio (guarda la video recensione) di Kubrick.

Una piccola ma curiosa odissea è stata anche, fino a oggi, la vita della manifestazione. Dopo aver inventato una formula molto imitata (i festival del fantastico in Francia, Belgio, Spagna e oggi ovunque), il Festival triestino viene ibernato maldestramente dalla politica negli anni ’80 e ’90. Dato per defunto, ottiene invece un altro probabile primato mondiale, perché resuscita a sorpresa dopo 20 anni di assenza. Grazie a un gruppo di giovani e intraprendenti cinefili locali, riparte nel fatidico 2000 con il nome di Trieste Science+Fiction, raggiungendo in questi (secondi) 20 anni di vita uno status e un calore ormai superiori alla prima stagione, ospitando leggende quali Corman, Joe Dante, Gilliam, Jodorowski, Landis, Christopher Lee, Moebius, Romero, nonché tanti registi emergenti da tutto il mondo. 

E, meglio di quanto fosse prevedibile grazie alla qualità dei film presentati, il 20mo Science+Fiction tenutasi nei giorni scorsi (29 ottobre - 4 novembre) è stato involontariamente attualissimo. Per la natura stessa delle opere che propone, Science+Fiction è infatti destinato a raccontare e anche presagire le crisi del nostro pianeta, a partire dagli scenari apocalittici causati da micidiali epidemie e anticipati dal cinema, che ora gareggiano con la realtà. Come intuiva Eco 60 anni fa, la fantascienza è ancora e sempre “termometro delle tematiche in discussione”. Così, in questa edizione 2020 di Science+Fiction molti titoli, pur realizzati prima del Coronavirus, ci hanno fatto riflettere da vicino sulle tematiche pandemiche.

Alone dell’americano Johnny Martin ha raccontato lo scoppio di un’epidemia che getta una metropoli nel caos, con gli esperti che consigliano ai cittadini di autoisolarsi per cercare di sopravvivere non solo al virus, ma anche alle scorribande degli infetti in strada o dentro il condominio. Confinamento, sopravvivenza, città deserte, rivolte dei più colpiti, regressione sociale, assenza di legalità, benessere che collassa, sono gli scenari fittizi canonici (ma ora sappiamo anche quanto realistici), che si sono rivisti in titoli quali Peninsula del coreano Yeon Sang-ho, Yummy del belga Lars Damoiseaux, Meander del francese Mathieu Turi. Mentre Post mortem, dell’ungherese Péter Bergendy, ci ha riportato casualmente indietro di un secolo all’antenata del Covid, l’influenza “spagnola”, che qui infesta di fantasmi un villaggio.


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