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Tokyo, i film giapponesi animano il Festival

Presentati in Concorso gli attesi Sayonara, Foujita e The Inerasable, tre lavori che hanno creato interesse e discussioni.


venerdì 30 ottobre 2015 - Festival

Dopo un avvio senza entusiasmi, il concorso del 28° Festival Internazionale di Tokyo si è risollevato grazie al passaggio in gara dei tre attesi film giapponesi. Unanimità non c'è stata per nessuno dei tre titoli, ma almeno si è trattato di film che hanno creato interesse e discussioni.
E sicuramente ha ragione di far discutere il primo contendente presentato, Sayonara di Fukada Koji. L'acclamato regista indipendente del rohmeriano Au revoir l'été (presentato in concorso a Tokyo due anni fa) torna difatti con l'adattamento di un testo teatrale di Hirata Oriza (che aveva già diretto sul palcoscenico) in cui assistiamo all'interazione tra un'attrice (l'americana 'naturalizzata' giapponese Bryerly Isabel Long) e Geminoid F, un androide di sembianze femminili. Siamo in un Giappone del futuro e in un prologo inquietante riceviamo notizia di attacchi terroristici mirati alle centrali nucleari del paese. In seguito alla catastrofe nucleare, il paese è integralmente contaminato e la popolazione è costretta ad un esodo di massa, contingentato attraverso un sistema ad estrazione - una lotteria che assegna i 'fortunati' presso i paesi disponibili a offrire asilo agli esuli 'contaminati'. Da questa premessa fantascientifico-apocalittica discende però un dramma da camera, dove una giovane donna d'origine sudafricana (la cui famiglia bianca era scappata dal paese per fuggire le ritorsioni post-apartheid), consapevole di una fine imminente spende i suoi ultimi giorni in una magione di campagna, in compagnia del robot che l'accudisce. A parte alcune visite (tra cui quella del fidanzato, che conduce ad una scena di sesso piuttosto esplicita, ma dai toni sorprendentemente luttuosi) e uscite necessarie (l'androide che va a far la spesa, la giovane donna che si reca al centro dove vengono pubblicati i risultati della 'lotteria' per l'uscita dal paese), Sayonara si situa principalmente tra le mura di una casa decorata in stile occidentale e la campagna immediatamente circostante. Dopo la leggerezza e la freschezza di Au revoir l'été, Fukada sorprende con la solennità quasi funerea di questo Sayonara che sì, sorprende per la presenza in scena dell'androide (e per l'insolita scelta di una fissità interpretativa che pone in sintonia la Long con Geminoid F), ma che è soprattutto un'ode al potere taumaturgico della poesia e della natura - con ritocchi anamorfizzati che evocano Sokurov. L'esito non è per tutti i palati e forse un po' stiracchiato (il testo originale aveva una durata da cortometraggio), ma regala momenti di toccante bellezza, come la splendida sequenza della decomposizione del corpo della protagonista.

Una piacevole sorpresa è stata l'horror The Inerasable di Nakamura Toshihiro. Incongrua presenza mainstream nel concorso del festival, il film di Nakamura in verità potrebbe deludere i fan sfegatati del genere. Perché fin dal prologo, dove Nakamura mostra subito le creature che dovrebbero seminare terrore (e che nella loro sgranatura digitale tanto terrificanti non appaiono), il film si palesa come altro rispetto alle convenzioni dei film di paura con colpi di scena truculenti in svendita. The Inerasable racconta di una scrittrice che ha trovato il successo traslando in racconti d'orrore le lettere di lettori che la rendono partecipe delle loro esperienze con il paranormale. Ma quando una giovane donna condivide la sua inquietudine rispetto allo strano rumore che sente di notte nel suo appartamento, una sorta di vaso di Pandora viene scoperchiato. Un'intricata rete di connessioni insospettate tra molteplici luoghi e storie in diverse epoche si profila, portando la scrittrice e la studentessa sulle tracce dell'origine di una spaventosa maledizione. Si capisce chiaramente che più che un horror, Nakamura tira le fila di un fitto mystery tra fatti di cronaca e leggende urbane, volto a svelare sì le radici di un agghiacciante mistero, ma anche a rivelare come nascono le storie di fantasmi. Grazie al potere della scrittura, che dà forma alla storia tramite la voce over, la protagonista pensa di poter controllare il suo materiale e, alla fine, di poter chiudere i molteplici fili della narrazione che ha seguito e perseguito... ma ovviamente si sbaglia! E sui titoli di coda, anche lo spettatore vedrà più di quel che deve vedere! Un divertissement tutt'altro che scontato per gli amanti del genere; assolutamente da evitare per i superstiziosi!

Foujita segna, infine, il ritorno dietro la macchina da presa di Oguri Kohei, a dieci anni da The Buried Forest. Nel disegno della parabola artistica e personale del pittore eponimo, coevo di Picasso, Matisse e Modigliani, molto ammirato in Francia, ma poi controverso in patria per il suo contributo alla propaganda militare durante la Seconda Guerra Mondiale, ritroviamo gli elementi che creano fascinazione e suscitano perplessità nel cinema di Oguri. Dopo il trionfo cannense del capolavoro L'aculeo della morte (Grand Prix di Cannes 1990), Oguri pare difatti essersi dedicato ad una visibile rincorsa di consensi presso festival e critici occidentali, attraverso una ricercatezza formale prossima all'affettazione e a parentesi (auto)esotizzanti poco digeribili. Non stupisce, quindi, che Oguri abbia trovato interesse nel portare al cinema la storia di Foujita, visto che per certi versi pare uno specchio del suo percorso artistico. Non stupisce nemmeno che Cannes abbia detto no al film, visto che la parte francese del film è compromessa da pesanti cliché figurativi e narrativi (nonché dall'evidente difficoltà di Odagiri Jo a recitare in francese). Nel segmento conclusivo, d'ambientazione nipponica, meno narrativo, ambiguo e quasi mistico, Oguri inanella composizioni di grande beltà, scadendo, però, come già in The Buried Forest in un utilizzo pasticciato degli effetti speciali. La giustapposizione dello sconfortante segmento francese a queste immagini sontuose rischia però di rinfocolare e rafforzare il sospetto di una ricerca figurativa mirata all'incantamento attraverso la deliberata sottolineatura dell'alterità.

A fronte del panorama stimolante, ma nel complesso dissonante, offerto dal terzetto di film locali in concorso, vale la pensa menzionare che il festival ha anche offerto l'opportunità di riscoprire, in un restauro digitale in 4K, a trent'anni dalla sua prima come film d'apertura del primo Tokyo Film Festival, il maestoso e intramontabile Ran di Kurosawa Akira. Monumento della maturità di uno dei grandi artisti che hanno fatto il cinema, Ran si rivela oggi uno shockante testamento di un cinema e di un fare cinema che non esistono più. In termini di grandiosità produttiva, il film di Kurosawa pare impensabile al giorno d'oggi (ed era già un'impresa folle all'epoca). Ma anche la ricercatezza e la perfezione della forma e della costruzione filosofico-concettuale di quest'opera immensa e definitiva gettano un'ombra e un fardello non da poco sulle produzioni contemporanee in programma al festival trent'anni dopo. Ma poi, ci si ritrova a riflettere su come, all'epoca, Kurosawa venisse da un periodo di scarso apprezzamento in patria e come lo stesso Ran fosse stato accolto con perplessità (a fronte anche della presentazione del film di Oguri è interessante notare anche come Kurosawa sia sempre stato più amato in Occidente che in patria e che lo stesso Ran, adattamento nipponico di Re Lear sia anch'esso un'espressione di un tentativo di trovare un equilibrio tra Oriente e Occidente). E si ripropone il rovello critico sulla difficoltà di giudicare le opere del presente e riconoscere quel che di memorabile tra esse di palese. Anche se è legittimo dubitare che nulla di quel che s'è visto a Tokyo 2015 potrà rivaleggiare negli annali della storia del cinema con Ran. Resta dunque da augurarsi e sperare che questa rivisitazione digitale permetta a molti, in altri festival e rassegne in giro per il mondo, di (ri)scoprire sul grande schermo un'opera di vero Cinema.

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