In concorso: dagli USA Born to Be Blue, dalla Thailandia Snap e dalla Danimarca Land of Mine.
di Paolo Bertolin
Percorsi nella Storia, collettiva e individuale in tre dei film passati in concorso al Festival di Tokyo. Si comincia con una pagina di Storia post-Seconda Guerra Mondiale assai poco nota in Land of Mine del danese Martin Pieter Zandvliet. Dopo la liberazione dall'occupazione tedesca la Danimarca fu lasciata con oltre due milioni di mine sulla sua costa occidentale, dove i tedeschi erano convinti sarebbero sbarcati gli alleati. L'opera di disinnesco dell'enorme quantitativo di mine fu condotta da prigionieri di guerra tedeschi, per la maggior parte giovanissimi, inviati in battaglia negli ultimi tragici e convulsi giorni della guerra.
Zandvliet racconta di un'unità di questi malcapitati, sorvegliati e comandati da un sergente danese dapprima inflessibile, ma che poi, ovviamente, si rende conto d'avere a che fare con ragazzini incolpevoli. Il dato storico è l'aspetto più interessante di un film scolastico, prevedibilissimo in ogni dettaglio dello svolgimento narrativo e persino della messa in scena (le tragiche esplosioni che arrivano sempre esattamente dove te l'aspetti...). Non aiuta poi che i personaggi rimangano figurine stereotipate senza spessore, imperdonabilmente prive di credibili storie individuali che le ancorino allo sfondo della Storia.
Al contrario, in Snap del thailandese Kongdej Jaturanrasmee, la difficoltà di raccontare il passato traumatico del paese porta a privilegiare il romanticismo malinconico di una relazione che la Storia ha troncato.
Comprensibilissimo quanto sia difficile rievocare il passato di colpi di stato militari e repressioni dei movimenti studenteschi in un paese che al momento è nuovamente sotto il governo di una giunta militare, ma il contesto storico su cui si staglia la vicenda di due ex innamorati che si ritrovano, allorché lei sta per sposare un altro, e che dovrebbe aver segnato la loro divisione, è trattato in maniera così evasiva da risultare edulcorato. Senza contare che la storia d'amore al centro del racconto pare più una mera cotta adolescenziale che una grande passione tragicamente interrotta.
Storia individuale tout court, invece, nella biografia filmata del grande trombettista jazz Chet Baker in Born to Be Blue di Robert Budreau. Sarà anche impietoso, ma è inevitabile ricordare che a Baker il fotografo Bruce Weber consacrò nel 1988 uno splendido lungometraggio documentario, Let's Get Lost - Perdiamoci. Il paragone è impietoso perché il film di Budreau nulla condivide dello splendore fotografico di quello di Weber. Il bianco e nero di Budreau è piatto e convenzionale a cominciare dal suo utilizzo come marca narrativa di un passato raccontato nel film. Perché sì, Born to Be Blue prende le mosse dall'incontro sul set di un film mai completato tra Baker e la compagna attrice Jane, che gli stette al fianco nel periodo della disintossicazione e del ritorno sulle scene dopo un'aggressione che gli fece perdere i denti e che si temeva l'avrebbe allontanato per sempre dalla musica. A parte lo stacco in cui la finzione del set nel set viene rivelata, il solo momento in cui Born to Be Blue si solleva da una messa in scena di convenzionale pulizia e pulsa di un'emozione vibrante si manifesta quando Ethan Hawke si confronta con l'interpretazione vocale di Baker in occasione del suo primo ritorno alla performance di fronte ad un pubblico in studio di registrazione. La sfida per Hawke è ardua, ma gli vanno riconosciuti una passione e un immersione nell'Arte di Baker che latitano nel resto del film.
Peccato quindi che il suo impegno attoriale sia al servizio di un copione formattato sul cliché dell'artista maledetto e autodistruttivo. Se l'intento era quello d'instradare Hawke sulla rotta per le nomination agli Oscar, il tentativo rischia d'essere fallito.
Vedremo comunque che ne penserà la giuria di Tokyo capitanata da Bryan Singer, visto che sin qui la competizione non pare proprio prendere quota.