L'amore può assumere molte forme, non tutte necessariamente piacevoli - come ben saprà chi ha intrecciato più di una relazione sentimentale -, ma quella raccontata nel film di Guadagnino è una storia romantica a suo modo tradizionale, in cui al timore del rifiuto subentra una timida presa di coscienza, seguita da trepidazione, desiderio, (ri)scoperta delle reciproche vulnerabilità e, soprattutto, dall'impellente necessità di proteggere e sostenere l'altro.
Non tutti i mostri sono mostri per scelta: alcuni, come i protagonisti di "Bones and all", lo sono a causa di un mero imperativo biologico, e malgrado questo non vada ad intaccare in maniera sensibile la loro moralità, li spinge a vivere perseguitati dallo spettro di un onnipresente giudizio e a convivere con il peso delle proprie azioni.
Contrariamente a quanto affermano le parole stizzite di certi spettatori dal disgusto facile, non parliamo di un'opera eccessivamente cruenta o impressionante: a dispetto dei temi trattati, la pellicola si distingue per una sorprendente levità, un lirismo naturalista ed essenziale che occasionalmente beneficia della straordinaria colonna sonora industrial di Trent Reznor per punteggiare le sequenze più crude.
Uno dei meriti più grandi che gli attribuisco è di rappresentare - insieme a "Una storia vera" di David Lynch - un rarissimo caso di film "on the road" privo di quel retrogusto pretestuoso che caratterizza altri esponenti dello stesso genere. Qui il costante bisogno di muoversi è giustificato, sia da evidenti motivazioni pratiche che dalle opposte forze che muovono i protagonisti, l'una in cerca della propria famiglia e l'altro perennemente in fuga per proteggerla. C'è una bellezza pittorica nel continuo intervallarsi di cittadine e campagne, eppure, sotto sotto, balugina la speranza agrodolce di fermarsi e mettere radici, lo struggente miraggio di una vita "normale" che accomuna quasi tutte le anime vagabonde.
Molto buona la prima parte, un po' più farraginosa quella centrale. A brillare sono però i bravissimi Taylor Russell e Timothée Chalamet, capaci d'infondere ai loro personaggi il tenero soffio vitale di una giovinezza venata dai germogli di una maturità precoce, due bambini saggi che navigano alla cieca, feriti ma - e che splendido contrasto - sempre e comunque incorrotti.
Peccato per l'epilogo, di cui condivido appieno la filosofia e l'idea (neanche troppo latente) di romanticismo, ma a mio avviso un po' forzato e ridondante sul piano narrativo - al netto di un'immagine finale che sprigiona una straordinaria forza evocativa riallacciandosi in modo brillante alla sequenza di apertura.
In conclusione, "Bones and all" è un film che tratta solo in apparenza di omicidi e carnalità tribale, ammantandosi di una commovente tensione verso la vita, piuttosto che di una cinica smania di sopravvivenza. Il suo più grande pregio, in definitiva, è anche il suo maggior difetto: la fusione di generi è equilibrata e quando funziona ha del miracoloso, ma l'impressione postuma è che i turbamenti emotivi fossero resi con maggior efficacia in "Chiamami col tuo nome", e che l'orrore grottesco funzionasse meglio nel remake di "Suspiria".
Il mio voto finale è tre stelle. Alzo la valutazione di un punto perché trovo che un regista italiano in grado di andare oltre la vetusta idea di cinema radicatasi nel nostro Belpaese vada premiato.
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