Il colore nascosto delle cose

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ti ricordi di Antoine Doinel? Valutazione 4 stelle su cinque

di vanessa zarastro


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lunedì 25 settembre 2017

Devo premettere che Silvio Soldini è uno dei miei autori italiani preferiti. Ha fatto vari buoni film, ma a me è piaciuto moltissimo Brucio nel vento del 2002, tratto da un romanzo dell’ungherese Ágota Kristóf, che ho trovato un po’ truffautiano nello spirito. Questa capacità di inserire l’elemento del sogno e di dare spazio alla fantasia all’interno di vite talvolta monotone, mi pare sia una caratteristica di questo regista che si distacca dal neo-neo-realismo di tantissimi autori italiani. Anche quando gira dei documentari – come ne Il fiume ha sempre ragione del 2016 – la carica poetica si unisce a quella tecnica.  La sua concezione di cinema sembra essere quella di una “lente attraverso la quale si legge la vita”, che porta avanti con una regia rigorosa, minimalista, e un tocco leggero in contrapposizione ai personaggi inquieti che descrive nei suoi film.
In Il colore nascosto delle cose Soldini affronta il tema della cecità, ma sembra quasi un pretesto per parlare delle donne versus gli uomini. Ha scelto di descrivere il rapporto che nasce tra Emma (una splendida e bravissima Valeria Golino) una fisioterapista non vedente e Teo (il seduttivo Adriano Giannini) un pubblicitario che lavora in un’importante agenzia. Lui è il simbolo del maschio italiano (ma solo italiano?) ancora immaturo a quarant’anni, cioè affetto di peterpanismo, incapace di affrontare le cose per quello che sono, e di dire la verità anche, e specialmente, quando potrebbe far male. Quindi, Teo finisce per comportarsi male con tutte le donne con cui ha un rapporto, anche con quella che crede di amare. Siamo a Roma in un habitat medio borghese – si riconosce il quartiere Flaminio - fatto di edifici alti attorno ad ampi cortili. Teo conosce casualmente Emma partecipando all’esperienza di “Dialogi al buio” in cui si viene guidati in un percorso privo di fonti luminose, cercando di sviluppare gli altri quattro sensi. Lì le persone prive di vista sono avvantaggiate perché abituate all’ascolto, agli odori alle altre sensazioni. Sempre accidentalmente Teo rincontra Emma in un negozio di vestiti femminili. Gli scatta la curiosità - oltre alla vanità della conquista – e va in terapia da lei pur di parlarle e di tentare di sedurla. Man mano impara a conoscerla e scopre che è una donna estremamente differente a tutte quelle che ha conosciuto. Emma è una persona positiva nonostante sia diventata cieca da adolescente, coraggiosa e autonoma. È piena di interessi, ama e cura le piante, ama anche il cinema e la musica, dà ripetizioni di francese a una ragazza anch’essa cieca che non vuole accettare la propria menomazione. Teo sfugge ogni responsabilità anche in famiglia. Il padre gli è morto quando lui aveva sei anni e la madre si era risposata, ma Teo non è riuscito mai ad accettare il patrigno, pertanto non ha fatto altro che sfuggire dal piccolo paesino toscano da cui proveniva: collegio, università, lavoro, donne. Non tornerà a casa neanche per il funerale del patrigno. Sembra che le sofferenze infantili forgino in maniera decisiva i personaggi maschili del cinema: anche Truffaut narrava di Antoine Doinel che aveva patito le cattiverie del patrigno in I quattrocento colpi del 1959, il primo film della serie sulla vita di Antoine.
Nel 2014 Soldini si è trovato in terapia da un osteopata non vedente e su questa idea ha già girato il documentario Per altri occhi – avventure quotidiane di un manipolo di ciechi. Da qui ha costruito questa storia d’amore dove la donna, in quanto essere femminile e per di più non vedente, possiede una sensibilità molto sviluppata contro la quale cozza l’incapacità di essere corretto del “curioso delle donne” per dirla con Alberto Bevilacqua. Il film è stato presentato fuori concorso alla 79ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

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